3. L'incapace

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HUNTER

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HUNTER

Odiavo mio padre.

Odiavo quell'uomo più di quanto avessi mai odiato qualcuno in tutta la mia vita, e la lista era parecchio lunga, poiché non potevo di certo dire che fossi generalmente ben disposto nei confronti del genere umano.

Dopo quella ridicola scenetta nell'ufficio di quell'ancora più ridicola segretaria, avevo provato a telefonare a mio padre per chiedergli come diamine gli fosse venuto in mente di affidarmi a una babysitter improvvisata, o più semplicemente per inveirgli contro perché avevo una malsana voglia di sfogare tutta la rabbia che mi si era riversata nelle vene, ma non aveva risposto a nessuna delle mie undici chiamate e ovviamente non si era nemmeno degnato di leggere i numerosi messaggi che gli avevo inviato. Non avevo dieci anni, non avevo bisogno che una ficcanaso spifferasse ogni mio movimento a mio padre, né tantomeno desideravo che quell'insulsa segretaria conoscesse ciò che Bill pensava di me. Mi riteneva un buono a nulla, non ne aveva mai fatto un segreto nonostante non lo avesse detto a chiare lettere, ma questo non significava che fosse necessario rendere partecipe dei suoi pensieri anche la sua dannata segretaria.

Nel momento in cui la voce automatica della segreteria mi riempì le orecchie per l'ennesima volta, faticai a trattenere l'istinto di defenestrare il cellulare.
La porta del mio nuovo ufficio – una gentile concessione di Bill – venne spalancata e io, che mi trovavo in piedi davanti alla scrivania, sollevai pigramente lo sguardo verso Tyler, che fece qualche passo in avanti.

«Bussare è passato di moda?» lo incalzai.

Tuttavia lui mi ignorò e richiuse la porta. «Ho sentito quello che è successo con tuo padre», esordì. «Anzi, tutti hanno sentito. Probabilmente, anche i dipendenti che si trovano negli altri piani.»

Concessi a Tyler di guardarmi con quegli occhi pieni di un rimprovero silenzioso solo perché eravamo amici da una vita. Ci eravamo conosciuti alle scuole medie, e fino al divorzio dei miei genitori e al conseguente trasferimento a Londra con mia madre e mio fratello, avevo passato con lui e Zade la maggior parte del mio tempo. E sebbene non perdessi occasione per scherzare sul fatto che, probabilmente, era stato assunto da mio padre solo grazie a me, in realtà sapevo che possedeva delle capacità che chiunque gli avrebbe invidiato. Era un cervellone del marketing, le sue strategie erano impeccabili, sapeva sempre come far spiccare l'azienda tra tutti i competitor presenti nel mercato, anche con strategie che a volte ritenevo perfino discutibili. Mio padre lo riteneva uno dei migliori, sapevo che prima o poi lo avrebbe promosso a qualche ruolo più importante e l'aumento del suo stipendio era un chiaro segnale che sarebbe accaduto a breve.

Tuttavia, non si esimeva mai dal farmi una delle sue ramanzine, e a volte lo odiavo per questo.

Mi infilai il cellulare in tasca, con la promessa che avrei provato a telefonare a mio padre più tardi. «Sì, e quindi? Sono affari miei e di Bill», lo rimbeccai.
«Non ho detto che non lo siano. È solo che...» Si lasciò andare a un sospiro, mentre si passava la mano tra la zazzera di capelli biondi. «Hunter, stai per prendere il comando di una sede a se stante. Se non sei capace di presentarti in orario per una semplice riunione perché preferisci spassartela con Zade chissà dove, come puoi credere che tuo padre ti riterrà capace di gestire un'intera azienda da solo?»

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