38. Ventnor City

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HUNTER

A volte, Eleanor mi ignorava. Lo faceva spesso, in realtà, quasi fosse una sua abitudine consolidata, e se dapprima avevo pensato che lo facesse di proposito per farmi correre da lei, stavolta avevo la sensazione che fosse effettivamente arrabbiata con me. Mi aveva a malapena rivolto un cenno di saluto quando ci eravamo incontrati di sfuggita in corridoio, e non aveva nemmeno aperto bocca il giorno precedente, quando ci eravamo trovati in compagnia di Tyler e Kim vicino ai distributori automatici.

Me ne importava? No.
Mi dava fastidio? Tremendamente.

Ciononostante, il suo ignorarmi ebbe vita breve, e quel giovedì mi presentai nel suo ufficio per intimarla a darsi una mossa perché saremo partiti entro un'ora verso Jersey City. Lei, ovviamente, non aveva potuto obiettare e, con le iridi intrise di rabbia, si era fatta trovare fuori dall'ascensore in perfetto orario.

«Dov'è Mojito?» le chiesi, non appena mi fermai al suo fianco.
«Con la dog sitter.»
«E ieri dov'era?»
«Con la dog sitter.»
«E...»
«Sì, anche martedì era con la dog sitter. Ora, possiamo andare o devi farmi il terzo grado sul mio cane?»

Non avevo alcun dubbio, era incazzata. Avevo quello sguardo tipico di quando voleva staccarmi la testa a morsi.

E a me, la sua rabbia, eccitava.

Non mi rivolse un solo sguardo sperduto dentro l'ascensore, e non lo fece nemmeno quando occupammo l'abitacolo della mia auto. Se ne stava seduta composta, con il cappotto bianco ancora addosso ma lasciato aperto, a farmi intravedere le sue gambe coperte da un paio di calze collant scure e la gonna nera che non le arrivava nemmeno alle ginocchia. Fu difficile non lasciar vincere l'istinto di allungare le mani. Davvero complicato. Un conto era resistere in azienda, quando la presenza di tutte quelle persone riusciva a mitigare l'attrazione magnetica che il suo corpo esercitava sulla mia mente, però in quel momento eravamo da soli, all'interno della mia auto, diretti verso un'altra città.

Il cielo su New York era terso, e sebbene ci fosse effettivamente freddo, i raggi solari illuminavano i grattacieli e i palazzi più alti.

Jersey City non distava molto da Manhattan, però Eleanor ancora non sapeva che il nostro itinerario non si sarebbe concluso lì.

«Hai intenzione di stare zitta per tutto il tempo?» le domandai d'un tratto.

Lei rimase voltata verso il finestrino. «Non ho niente da dire.»

«Strano. Hai sempre qualcosa da dire.»

«Non adesso.»

Giusto per darle fastidio, che rimaneva comunque uno dei miei passatempi preferiti, accesi la radio. In un attimo, Give Me Everything di Pitbull riempì l'abitacolo.

Non si mosse e non emise un solo fiato.
Allora alzai il volume al massimo.
Si voltò a rallentatore per lanciarmi un'occhiata al vetriolo.

Bingo.

Tuttavia, non disse nulla; allungò una mano e abbassò il volume.
Lo alzai di nuovo.
Eleanor sbuffò e, ancora, lo abbassò.

Quindi ripetei lo stesso schema ma mantenni la mano sul comando affinché non potesse toccarlo.

«Abbassa la musica! Mi sta spaccando i timpani!» si lamentò.

«Mi fa compagnia.»

Rilasciò uno sbuffo sonoro e incrociò le braccia al petto, indispettita. Dovevo rimanere concentrato sulla strada, però sentivo il peso del suo sguardo incazzato addosso.

Fu quando la guardai, però, che notai che aveva appoggiato i piedi sul cruscotto. Sorrisi. «Bel tentativo.»

Poiché si rese conto che il suo dispetto non mi aveva scalfito in alcun modo, si premurò di battere un paio di volte le suole degli stivali che indossava sul cruscotto.
«Continua pure», la incitai.

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