26. Giocare d'astuzia

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HUNTER

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HUNTER

Esisteva una linea tanto sottile quanto netta che divideva le cose da come avrebbero dovuto essere a come invece erano realmente.

Avrebbe dovuto essere che, dopo la notte passata insieme, avessi smesso di fantasticare sulla fastidiosa segretaria di mio padre piegata sulla mia scrivania mentre le affondavo dentro da dietro; avrebbero dovuto essere che quel morso famelico che sentivo sotto l'ombelico si fosse già saziato e non ne pretendesse ancora; avrebbe dovuto essere che riuscissi quantomeno a contenermi ogni volta che il soggetto delle mie fantasie mi passava davanti. Invece non era così.

Nient'affatto.

Erano ormai quattro giorni che non ci rivolgevamo una parola nemmeno per sbaglio, da quella mattina nel suo ufficio in cui avevo riportato a galla il succhiotto che lei aveva tentato di camuffare, ed erano quattro giorni che, tutte le volte che mi sfilava vicino, quell'impulso di strapparle i vestiti di dosso e possedere quel corpo dalla pelle vellutata in modi indicibili mi faceva prudere le mani.

Ero abituato ad avere tutte le donne che volevo ogni volta che volevo, senza nemmeno fare sforzi, perché erano loro a sgambettare da me per avere ciò che desideravano. Ero io a stufarmi di loro dopo la prima volta, mentre le più fortunate, invece, arrivavano a un paio di settimane, ovviamente senza alcun tipo di esclusività perché non me ne fregava un cazzo.
Ma con lei non sembrava funzionare alla stessa maniera. Lei, dopo quella notte, mi aveva semplicemente ignorato.

Quindi, quella mattina avevo deciso di arrivare tardi in azienda, giusto per infastidirla e suscitarle qualche tipo di reazione che l'avrebbe spinta a finire nella tana del lupo. Quando sfilai per il lungo corridoio, al primo rintocco delle undici, notai la porta del suo ufficio aperta e la superai evitando di guardare all'interno.

Il rumore provocato dal ticchettio dei tacchi che battevano un ritmo concitato sul pavimento fu come una melodia che preannunciava la vittoria.

«Avviserò tuo padre.»

C'era un'inconfondibile sfumatura di rabbia nella sua voce delicata che proveniva dalle mie spalle.

«Torna a cuccia, Fido.»

Non ebbi neanche la necessità di voltarmi per studiare la sua reazione. Sapevo dove colpire, e sapevo che rispondendole così l'avrei fatta innervosire.

Mi chiusi nel mio ufficio e rimasi in attesa, seduto sulla mia sedia imbottita, ma non ci volle molto prima che quella nuvola di capelli scuri mi apparisse davanti.

«Perché sei arrivato a quest'ora?»

Ferma sulla soglia, le braccia abbandonate lungo i fianchi coperti da una gonnellina nera e quegli occhi dello stesso colore del cioccolato fondente intrisi di rabbia e disappunto.

Mi rilassai contro l'imbottitura. «Perché io faccio il cazzo che mi pare.»

Le labbra velate di rosso le si contrassero in una smorfia. «Siamo tornati al punto in cui tu riprendi a essere fastidioso e io devo avvertire tuo padre?»

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