32. Un esperimento

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HUNTER

Qualche stronzo una volta disse: "l'attesa del piacere è essa stessa il piacere". Doveva essere un coglione, uno di quelli che aspettava sulla soglia che qualcosa accadesse e che, poiché non accadeva mai, si raccontava quella storiella del cazzo.

Forse era Leopardi, quello stronzo, ma non ne ero poi così sicuro.

Non c'era nessun piacere nell'attesa, c'era solo quella frustrazione latente che mangiava via via terreno fino a diventare un mostro a tre teste che ruggiva disperato.
Ed era esattamente ciò che stava succedendo a me da due giorni a quella parte.

Dopo aver scopato su ogni superficie possibile la domenica precedente, per Eleanor era come se non fosse successo nulla. Il lunedì mattina si era presentata alle cinque nella stanza in cui avevo dormito – perché quella volta non mi ero lasciato fottere e non avevo passato la notte avvinghiato a lei – e mi aveva svegliato perché dovevamo ripartire subito per evitare di arrivare tardi al lavoro. L'avevo accontentata, mi ero scolato quanto più caffè possibile e mi ero messo alla guida per riportarci entrambi a Manhattan. L'avevo lasciata nel suo appartamento e, mentre lei si preparava, ero tornato a casa di Zade per farmi una doccia e indossare dei vestiti puliti; poi, dato che continuava a nevicare, ero passato di nuovo da Eleanor e le avevo dato un passaggio in azienda. Non aveva fatto menzione a tutto il sesso che ci eravamo concessi e, anzi, era stata piuttosto in silenzio perché, a detta sua, era stanca. Il che non era strano, dato che eravamo rimasti svegli fino a tardi, la notte prima.
Il problema era subentrato in azienda, perché, dal momento stesso in cui avevamo varcato la soglia dell'edificio, aveva imposto una distanza invisibile tra noi. Non aveva smesso di rivolgermi la parola dato che, volente o nolente, lavoravamo insieme, e con l'assenza di mio padre che era volato a Madrid eravamo costretti a interpellarci più del solito per varie questioni che si presentavano sulle nostre scrivanie, però era lontana fisicamente. Era come se si sforzasse di non avvicinarsi troppo, togliendomi così ogni possibilità di un contatto, e mi mandava fuori di testa.

Letteralmente.

Perché se il lunedì aveva indossato un semplice paio di jeans e un maglione bianco di qualche taglia più grande che le aveva nascosto le forme, il martedì aveva ben pensato di presentarsi con un paio di pantaloni bianchi e aderenti, e ogni volta che mi era passata davanti sopra quei tacchi vertiginosi i miei occhi erano stati calamitati dal suo fondoschiena rotondo che si muoveva al ritmo del suo leggero ancheggiare.

Ma la mia morte era stata sancita quello stesso mercoledì. Ero arrivato in ufficio prima del solito – un evento più unico e raro considerando che da quando avevo deciso di seguire almeno un po' le regole perché volevo riappropriarmi dei miei conti bancari il prima possibile avevo sempre varcato la soglia dell'edificio aziendale puntuale ma non in anticipo – insieme a Tyler che mi aveva ammorbato con le sue domande riguardo alcuni ristoranti stellati a Manhattan, e per ammazzare il tempo ci eravamo fermati ai distributori automatici di bevande a prendere un caffè. Poco prima delle nove, avevamo sentito la voce squillante di Kim che era apparsa sul fondo del corridoio insieme a Eleanor.

E, cazzo, quel giorno doveva aver riflettuto bene su tutti i modi con cui avrebbe potuto tranquillamente uccidermi, perché aveva ben deciso di indossare una gonnellina nera, aderente al punto giusto, abbinata a un dolcevita color cannella, e un paio di stivali in pelle che le arrivavano fino a metà cosce. E aveva lasciato i capelli sciolti, un cerchietto chiaro incastrato tra le ciocche scurissime.

Quando Kim ci aveva intravisto e l'aveva afferrata per un gomito con l'intenzione di raggiungerci, lei mi aveva guardato negli occhi e io avevo dovuto stringere con forza le mani a pugno per non lasciar vincere l'istinto che mi suggeriva di trascinarla nel mio ufficio, strapparle di dosso quei cazzo di vestiti e scoparla mentre indossava solo gli stivali.

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