42. Fuori da ogni logica

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HUNTER


Le undici in punto, era l'orario che segnava l'orologio agganciato al mio polso.

E alle undici in punto spensi il motore dell'automobile e uscii dall'abitacolo, la ventiquattrore in una mano e il caffè della caffetteria nella quale mi ero fermato poco prima nell'altra. Il parcheggio sotterraneo dell'azienda era praticamente deserto, eccezion fatta per le altre auto dei dipendenti posteggiate a spina di pesce.

Le undici e tre minuti, e io entrai nell'ascensore.

Le undici e cinque minuti e arrivai al piano del mio ufficio.

Avanzai lungo il corridoio, incurante delle solite occhiate curiose che ricevevo dai dipendenti ogni qualvolta io passassi nei loro paraggi, e il mio sguardo scivolò sulla porta aperta di un ufficio in particolare. Ufficio nel quale non mettevo piede ormai da un pezzo, considerando che Eleanor aveva deciso di fingere semplicemente che io non esistessi da quella notte a casa sua.

Non ci rivolgevamo mezza parola da ben dieci giorni. Era una fortuna per lei che mio padre fosse già rientrato dal suo viaggio in Spagna, perché ciò aveva inevitabilmente spostato le questioni lavorative a lui, anziché a me e lei soltanto. Perciò Eleanor se ne stava ferma in quella che credeva fosse la sua botte di ferro, forte del fatto che non avesse più nessuna costrizione di rivolgersi a me per cose di cui avrebbe dovuto occuparsi mio padre, che con il suo rientro aveva decretato il punto finale di tutta quella faccenda.

Il problema era che io odiavo perdere, e odiavo ancora di più che qualcuno potesse pensare di avere il coltello dalla parte del manico.

Mi ritenevo in modo del tutto ragionevole un uomo maturo, ma forse non abbastanza da accettare così presto una sconfitta di quella portata.

Oltrepassai quindi la porta dell'ufficio di Eleanor, e contai a malapena fino a tre prima che un rumore di tacchi non mi arrivò dritto alle orecchie. Rallentai senza però fermarmi.

«Sei in ritardo.»

Non ci fu bisogno di voltarmi, sentii i suoi occhi bucarmi la schiena.

«Lo so.»

«Ho avvertito tuo padre.»

Un sorriso mi affiorò alle labbra.

«Va bene, Fido.»

Non attesi oltre e varcai la soglia del mio ufficio, senza chiudere la porta perché, se avesse deciso di prendere un caffè, avrebbe dovuto sfilare lì davanti.

Appoggiai la ventiquattrore sulla scrivania, ignorai il cellulare che prese a squillare – poiché ero sicuro che si trattasse di mio padre, proprio come le quattro telefonate precedenti che avevo ricevuto – e mi accomodai sulla sedia, lo schienale in direzione della porta e lo sguardo verso le vetrate.

New York quella mattina aveva il profumo tipico che il passaggio della pioggia sprigionava. Le strade erano umide, la gente si accalcava sui marciapiedi, le auto sfrecciavano lungo le strade e i raggi solari illuminavano timidamente i palazzi e i grattacieli.

Da quando mio padre era tornato dalla Spagna, ovvero il martedì precedente, quasi nessuno aveva reclamato la mia attenzione poiché ogni questione era tornata di sua sola e unica competenza, mettendo me al mio posto originario: il figlio ricco e viziato che era stato mandato lì solo per punizione e di cui praticamente nessuno si fidava. Era una figura che mi calzava a pennello, in effetti, e comunque non si poteva di certo dire che fossi interessato alle supposizioni altrui. Quindi mi godevo quella placida tranquillità al sicuro nel mio ufficio, senza interferenze di alcun tipo.

Ma la mia serenità venne disturbata da qualcuno che bussò contro il battente della porta aperta e, quando mi voltai pronto a fulminare chiunque avesse ritenuto opportuno presentarsi lì, dischiusi le labbra dalla sorpresa.

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