44. Ti fidi di me?

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ELEANOR

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ELEANOR


Non c'era niente di meglio di passare il venerdì sera sul divano a guardare la replica di uno dei miei film del mio cuore, la mia tazza preferita con all'interno la tisana alle ciliegie tra le mani e Mojito accucciato vicino a me, che sonnecchiava beatamente.

Era diventato ormai un rito, una coccola che mi concedevo almeno una volta alla settimana, e il giorno che precedeva al mio compleanno non poteva essere da meno.

L'idea di compiere ventisette anni e non aver spuntato tutte le cose presenti nella lista che avevo stilato a vent'anni era un pensiero che in qualche modo mi angosciava, però ormai avevo imparato a rispettare i miei tempi e avevo preso coscienza del fatto che non dovessi necessariamente scapicollarmi per arrivare a dove magari non ero destinata. E in quella lista c'erano un sacco di cose, la ricordavo come se l'avessi scritta solo un'ora prima.

Viaggi qua e là, matrimonio, figli...

Tutte cose che, in un modo o nell'altro, mi erano state negate.

E in fondo andava bene così.

Non avevo più fretta, avevo smesso di correre.

Anzi, a volte avevo la sensazione che io fossi ferma mentre tutto il resto del mondo continuava a muoversi, però non me ne facevo più un problema.

«Ti stai perdendo il monologo migliore degli ultimi trent'anni», dissi verso Mojito, che ovviamente non mosse un solo muscolo e continuò a mantenere gli occhietti chiusi e il muso sul mio ventre. «Perciò fidati di me se ti dico che se un uomo ti tratta come se non gliene fregasse un cazzo di te, non gliene frega un cazzo di te davvero. Senza eccezioni», ripetei le parole in contemporanea al protagonista del film, poi mandai giù un sorso di tisana ormai fredda.

Evidentemente però qualcuno aveva deciso che non dovessi passare la serata in pace con me stessa, il mio film, la mia tisana e il mio cane, e infatti sbuffai e buttai la testa all'indietro non appena udii il suono del campanello.

Pensai che fosse Ryan – di solito era lui a piombare a casa mia a orari improbabili – perché magari il suo appuntamento con Alec era andato male e aveva necessità di una spalla sulla quale sfogarsi. E per Ryan sfogarsi significava passare ore a insultare qualsiasi cosa gli venisse in mente riguardo l'uomo di turno. Tutto nella norma, insomma.

Il campanello suonò ancora, obbligandomi a spingere la coperta sul fondo del divano per alzarmi in piedi. Non mi ero nemmeno cambiata, avevo ancora addosso il paio di jeans e il pullover nero che avevo indossato quel giorno in ufficio, e in realtà non vedevo l'ora di farmi una doccia e buttarmi a letto. Ammesso che Ryan non avesse intenzione di tenermi sveglia tutta la notte.

Stavolta non guardai nemmeno attraverso lo spioncino e, quando aprii la porta, mi pentii di non averlo fatto.

Nemmeno quella sera era Ryan, e registrai un battito mancato del cuore.

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