34. Solo un passaggio

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ELEANOR

Stare dietro al disordine di Bill Hawthorne era una delle cose per cui probabilmente venivo pagata fin troppo bene. Le due ore passate nel suo ufficio, dopo aver assolto i soliti primi compiti della mattina, si erano rivelate un disastro di fogli sparsi sul pavimento e sulla scrivania e tutta una serie di imprecazioni che avevo borbottato quando mi ero resa conto che niente aveva un ordine o un senso. Era necessario che fosse tutto scrupolosamente organizzato per data e codice, e invece pareva che Bill avesse buttato a tutto a terra in un momento di follia per poi rinfilare tutto alla rinfusa nella miriade di raccoglitori che occupavano un'intera parete. E non erano nemmeno tutti, dato che una stanza dell'ultimo piano ne era piena, ma erano documenti talmente datati che non era necessario che ci mettessi le mani per riordinarli. Per il momento, almeno.

Che poi dubitavo dell'utilità dei fogli svolazzanti, dato che possedevamo dei server appositi che fungevano da deposito digitale, però Bill aveva una particolare avversione verso la tecnologia e sosteneva di preferire la carta. Le identiche stronzate che proferiva Garrett. E così mi rendevano schiava delle loro stesse paturnie.
Non ne potevo più.

Mi alzai dal pavimento che mi aveva modellato perfino le natiche, mi sgranchii le gambe indolenzite a causa della posizione scomoda che avevo tenuto per tutto quel tempo e lasciai l'ufficio di Bill. La pausa pranzo era cominciata da circa dieci minuti e volevo stare un po' nella sala relax a fissare il nulla cosmico, motivo per cui avevo rifiutato l'invito di Kim di pranzare insieme nell'ennesimo ristorante nei dintorni.

Raggiunsi il mio piano, ormai svuotatosi dei dipendenti che avevano abbandonato le loro postazioni, per prendere qualcosa da mangiare ai distributori automatici, e dovetti necessariamente passare davanti alla porta socchiusa dell'ufficio di Hunter.

«Roberts.»

Sussultai per lo spavento non appena la sua voce mi raggiunse, dato che non credevo che fosse rimasto lì, però ripresi a camminare come se niente fosse, sebbene ormai avessi capito che nemmeno ignorandolo si sarebbe arreso. E infatti, sentii i suoi passi decisi in avvicinamento e io aumentai in tutta risposta la mia andatura per raggiungere l'angolo sul quale si piegava il corridoio.

«Roberts, sei diventata sorda?»

«No, sto solo facendo finta che tu non ci sia.»

«Non funziona. Torna indietro.»

Non mi fermai e continuai a camminare. «Neanche se mi legassero e mi trascinassero con la forza tornerei indietro.»

«Non mettermi certe idee su un piatto d'argento.»

«Ci metterei la tua testa decapitata, su un piatto d'argento.»

«La tua dolcezza mi commuove.»

«La tua spocchia mi fa venire il voltastomaco e l'emicrania.»

«Torna indietro. Non obbligarmi a inseguirti.»

Quanto diamine era lungo quel corridoio? O forse ero io rallentata, con quegli stivali scomodissimi sui quali riuscivo a malapena a camminare senza sbandare.

«Provaci. Almeno avrò una buona scusa per darti un calcio dove non batte il sole.»

Sapevo che Hunter non si sarebbe dato per vinto, arrendersi non sembrava rientrare nelle sue corde, e infatti non mi sorpresi per nulla quando mi piombò davanti, sbarrandomi la strada. Lo fulminai e cercai di superarlo da destra, e lui slittò in quella direzione; poi ripetemmo lo stesso teatrino verso sinistra e, in preda all'esasperazione, un gemito mi risuonò dalla gola.

«Ti vuoi levare?» sbottai. «Ho fame e non voglio perdere tempo con te.»

Piantonato davanti a me, incrociò le braccia sull'ampio torace. «Non mi pare che in fondo al corridoio ci sia un ristorante.»

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