Capitolo undici

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Lo spostamento d'aria improvviso mi avverte del suo arrivo. Si è lasciato cadere pesantemente sul sedile di fianco al mio. Guai in vista.

"Tutto okay?" chiedo.

Nessuna risposta.

"Oliver?"

Silenzio.

Mi volto verso di lui, lasciando perdere una volta per tutte i compiti di matematica. Guarda in basso, i capelli neri gli coprono gli occhi. Le spalle ricurve e il massetere contratto lo fanno sembrare più grande di quanto in realtà sia, più uomo.

Alzo una mano, faccio per appoggiarla sulla sua spalla nel tentativo di confortarlo, ma all'ultimo momento lascio perdere con il pretesto di dovermi sistemare una ciocca di capelli sfuggita dalla coda.

"Ti va di parlarne?"

Scuote la testa lentamente. Posso vedere il dolore che prova in ogni suo gesto ma, per quanto sia curiosa di sapere cosa l'ha reso così, annuisco lentamente accettando la sua decisione e appoggiando il suo silenzio.

Infilo il libro di matematica nella tracolla ai miei piedi e guardo fuori dal finestrino. Incredibile quanto la giornata si addica al suo stato d'animo: le nuvole avvolgono pesanti la città, soffocandola.

Esitante mi avvicino a lui. Non riesco a vederlo così.

Appoggio la testa alla sua spalla.

Lo sento trattenere il respiro per qualche secondo, stupito almeno quanto me dal mio gesto.

"Mio padre mi ha chiamato." La sua voce rompe la bolla di silenzio che ci isolava dal resto delle persone presenti sull'autobus, mi riporta alla realtà.

"Oh."

"Già."

"E... cos'ha detto?"

"È qui a Londra. Ha una trattativa da concludere e, dato che deve fermarsi qualche giorno, ha pensato di passare a vedere come stimo io e mie madre. Che idea geniale."

Non rispondo, limitandomi ad affondare ancora di più la testa nella sua spalla, a fargli sentire che io ci sono così come c'era lui quando ero io ad averne bisogno.

"Inutile dire che appena ha riconosciuto il suo numero lei si è chiusa in camera sua. Non vuole saperne di uscire di casa. La verità è che non è ancora passata oltre."

Abbassa lo sguardo, portando i suoi occhi nei miei.

"Dieci anni. Dieci anni e non una parola, un messaggio, un qualcosa per farci sapere che era ancora vivo. Dieci anni e non un giorno in cui, appena sveglio, non sia corso davanti alla porta di casa nella speranza di vederlo tornare, sentirmi dire che gli manco. E ora cosa fa? Spunta dal nulla così, come se niente fosse."

I suoi occhi si sono fatti scuri, adesso. Alzo la testa senza interrompere il contatto visivo creatosi fra di noi.

"Che gli hai risposto?"

"Che poteva scordarselo. Ora ha la sua famiglia perfetta, no? Noi non vogliamo saperne nulla."

"Tua madre è d'accordo?"

"È la cosa giusta."

"Tua madre è d'accordo?"

"Soffrirebbe troppo nel rivederlo dopo così tanto tempo."

"Oliver. Te lo chiedo per l'ultima volta. Tua madre è d'accordo?"

"Lei non lo sa."

"Perché non le hai chiesto la sua opinione?"

"Non sarebbe stata abbastanza forte per declinare."

"Forse perché non l'avrebbe ritenuta la scelta migliore, non ci hai pensato?"

"Certo che ci ho pensato, cosa credi?" sta quasi urlando, ora. "Non puoi capire Jane. Non hai la minima idea di cosa voglia dire crescere senza un genitore, non andare alle feste di compleanno dei tuoi compagni di classe perché lo stipendio di tua madre è basso e non puoi permetterti di spenderlo in regali. Tu non puoi capire."

Lo guardo negli occhi, ferita. Era tutto troppo facile, parlare era troppo facile, stargli vicino era troppo facile.

Sapevo che qualcosa sarebbe andato storto, prima o poi. Dovevo aspettarmelo.

Predo la tracolla da terra e mi alzo in piedi.

Scendo dal bus.


***

Sorry. I had to.

So che farli litigare non è piacevole, ma non può andare sempre tutto bene, no?

Aggiornamento dalla Germania!!!
Eh sì, ogni tanto vado in vacanza anche io eheh!

Chi di voi è mai stato in Germania? Dove di preciso??

E niente, sto guardando le olimpiadi -in tedesco- e wow, mi sono beccata tuffi e ginnastica artistica. Mi è andata bene.

Alla prossima,

That_Ravenclaw_Girl

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