Capitolo trentasette

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Sono sdraiata sul divano, la mia schiena aderisce al torace di Oliver mentre guardiamo la replica della serie tv che ho scoperto essere non solo la mia, ma anche la sua preferita, quando qualcuno suona il campanello.

Sento un grugnito scocciato scuotere il suo petto.

"Arrivo subito." Mormora scostando la coperta e scavalcandomi per andare alla porta.

Me ne sto sdraiata a guardare la tv con sguardo assente. Tutto sembra più freddo ora che si è alzato nonostante sia a meno di cinque metri di distanza.

Le voci degli attori si mescolano in un concerto senza senso con quella dell'inaspettato visitatore, che in un primo momento non riconosco.

"Buon pomeriggio." Questo è Oliver. La sua voce è l'unica distinta nella confusione che ho in testa da quando, tre giorni fa, sono uscita di casa lasciandomi alle spalle me stessa e la mia famiglia.

Mi sento come un filo spezzato: le due estremità possono essere legate, ma non tornerà mai quello che era prima, perché vi rimarrà sempre un nodo, ricordo indelebile di ciò che è stato in grado di romperlo con la forza di un uragano e la gentilezza della brezza d'estate.

"Tu devi essere Oliver."

"Noi due non ci conosciamo affatto. Non conosco questo posto e nemmeno il suo nome."

"Sì, sono io. Di cosa ha bisogno?"

"Io so che lei è un medico militare e che è stato ferito in Afghanistan. So che ha un fratello che si preoccupa per lei ma che non gli chiederà aiuto perché non lo approva, probabilmente perché è un alcolista o meglio, perché di recente ha lasciato la moglie. E so che la sua psicanalista pensa che il suo zoppicare sia psicosomatico, diagnosi corretta, temo. È sufficiente per frequentarci, non trova?"

"Sono il padre di Jane."

"Oh. Buongiorno signor Watson."

"Dov'è lei?"

"Il mio nome è Sherlock Holmes e l'indirizzo è il 221B di Baker Street. Buonasera."

"Si accomodi."

La porta si chiude. Non distolgo gli occhi dalla televisione. Non voglio vederlo.

"Jane, è tuo padre." Oliver prende il telecomando e toglie l'audio alla televisione. Fisso i personaggi ancora per qualche minuto, le loro labbra sembrano muoversi inutilmente, partoriscono parole mute d'intesa e disaccordo.

Anche le parole di mio padre sono mute, vuote, senza significato.

Posso davvero chiamarlo padre?

"Jane, vieni. Ti poto a casa."

Non mi muovo. "Tu lo sapevi."

"No, tesoro io-"

"Non chiamarmi tesoro. Tu lo sapevi."

"Lo sospettavo."

"Non hai mai detto nulla però."

"Non ne ero sicuro."

"Lo eri."

"Forse."

Scuoto la testa, la mia risata amara doppia le strade della Londra indaffarate sullo schermo che ancora mi ostino a fissare.

"Tu hai sempre saputo tutto. E non hai mai fatto niente."

"Non è facile come sembra."

Finalmente mi decido a voltarmi.

"Non è facile come sembra?" quasi urlo, alzandomi in piedi e fronteggiando l'uomo che mi ha dato la vita e mi ha tolto la ragione per viverla.

"Cosa non è facile, huh? Ammettere di essere così disperati da accontentarsi di essere la copertura di una donna che non ha avuto il coraggio di confessare alla propria famiglia la propria omosessualità? Perché è questo di cui stiamo parlando, no? È questo!"

"Non alzare la voce con me."

"Perché se no cosa succede? Mi metterai in punizione? Niente tv per un mese?"

"Jane mi sto innervosendo."

"E io sto impazzendo! Possibile che non ve ne rendiate conto? Sto perdendo lucidità con ogni secondo che passa! Ho trascorso due ore a fissare le lancette dell'orologio ruotare su loro stesse ancora e ancora e passare per ogni numero una volta, un'altra volta e un'altra ancora fino a dimenticare che suono ha la pioggia quando cade e la notte quando cala, fino a dimenticare che sto respirando e vivendo quando di vivo non ho nulla. Non lo capite questo?" Mi sgretolo su me stessa, in lacrime mi accartoccio come un bicchiere di plastica usato fino a trovarmi piegata sulle mie ginocchia, quasi avessi corso una maratona di silenzi soffocati.

Vedo gli occhi di Oliver combattere contro l'impulso di corrermi di fianco, o forse di correre via, lontano dalla ragazza che non è più quella che un giorno gli aveva detto che non parlava con gli sconosciuti, che l'argomento fosse il tempo o qualsiasi altra cosa.

Eppure mi trovo qui, davanti ad uno sconosciuto che credevo di conoscere, davanti ad un muro di bugie abbattuto a cannonate.

"Andiamo a casa." L'uomo è improvvisamente calmo.

"Io lì non ci torno."

"Andiamo a casa."

"Quella non è casa."

"Andiamo a casa."

"Lei non è casa."

"E io?"

"Lo eri. Ora non ne sono così sicura."

Lui abbassa lo sguardo.

"Io l'amavo, sai."

"La ami ancora."

"Non smetterò mai."

"Perché lo fai?"

"Cosa?"

"Perché le stai vicino anche se sai che ti sta usando?"

"Stiamo divorziando. Non lo definirei starle vicino."

"State divorziando perché l'ha chiesto lei."

Silenzio.

"Ti porto da tua nonna."

Annuisco spaesata alle sue parole, barcollo verso le scale per prendere la mia roba ma inciampo dopo pochi gradini.

È Oliver ad afferrarmi, Oliver a stringermi fra le sue forti braccia quando scoppio a piangere lacrime che mi scavano la pelle come se fossero acido.


Sento un fischio acuto farsi sempre più forte, lo sento perforarmi le orecchie, ferirle come un pugnale.

"Non doveva succede a Natale." Piagnucolo come una bambina, nascondo la testa nel petto del ragazzo che affonda il fiso fra i miei capelli che profumano del suo shampoo.

"Non doveva succedere a Natale."

"No, hai ragione. Shhh, tranquilla. Si risolverà tutto."

"Quando ero piccola mi piaceva il Natale."

"Ti piacerà ancora."

"Come fai ad esserne così sicuro?"

"Perché ti conosco."

"Meglio di chiunque altro. Una volta eri uno sconosciuto."

"Una volta parlavamo del tempo."

"Una volta era molto più facile."



***


...


/no comment/



:')


That_Ravenclaw_Girl


P.s.: sì, le parti scritte in corsivo sono le voci dei personaggi che si mescolano alle parole scambiate fra Oliver ed il padre di Jane.

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