Epilogo

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A adovrebieber che c'è sempre per me.
Ti voglio bene, amica mia.

New York, tre anni dopo.

La luce filtrata dalle tende giunge fino al mio viso, costringendomi ad aprire gli occhi per il fastidio. Sbatto le palpebre più volte per abituarmi alla luce mattutina e mi passo una mano sul viso, dopo essermi messa a sedere sul materasso, stiracchiando i muscoli intorpiditi. Un senso di malinconia mi assale nel vedere l'altro lato del letto completamente vuoto. Avrei voluto potermi svegliare con la vista dei suoi occhi puntati nei miei, ma cerco di cacciare quel pensiero; non voglio rattristirmi.

Pigramente e controvoglia, mi convinco a strisciare fuori dalle calde coperte e subito un brivido di freddo attraversa la mia schiena: l'inverno è alle porte e in situazioni come queste sento la mancanza della soleggiata e sempre calda California, anche se indossare maglioni di lana e bere cioccolata calda per riscaldarsi non mi dispiace affatto.
Afferro la sua camicia, che col tempo è diventata la mia camicia, dalla sedia e me la infilo; è grande ed accogliente, ed ogni volta che la metto mi sembra di essere accolta in un suo abbraccio.

Guardo fuori dalla finestra. Il cielo è plumbeo; con ogni probabilità verrà giù un acquazzone. Tanto meglio, penso, non ho alcun programma per oggi.

Scalza e con indosso solo quell'indumento per me extralarge, cammino in direzione della cucina, quella cucina per la quale abbiamo litigato una settimana e mezzo a causa del colore: lui la voleva blu ed io bianca. Alla fine, abbiamo trovato un compromesso, decidendo di prenderla mogano.

Un sorriso grande come una casa mi si dipinge sul volto quando, entrando nell'ambiente, lo vedo occupato ai fornelli.

È così preso dalla sua mansione che nemmeno si accorge della mia presenza dietro di lui e così ne approfitto per sorprenderlo alle spalle, cingendolo per la vita e facendo aderire il mio petto alla sua schiena possente, coperta soltanto da una leggera ed aderente t-shirt bianca. <<Buongiorno anche a te>> ridacchia quando gli lascio un bacio sul collo. Con una mano stringe le mie, intrecciate all'altezza del suo stomaco e si volta leggermente verso di me. <<Sto preparando la colazione>> mi informa.
Mi perdo un attimo ad ispirare quel profumo invitante con già l'acquolina in bocca e <<Lo vedo>> osservo con fare divertito, liberandolo dall'abbraccio per andare a sedermi al bancone, come una bambina impaziente di mettere qualcosa sotto i denti. <<Cosa festeggiamo, questa volta?>> gli chiedo non appena mi serve il piatto di pancakes ai mirtilli ricoperti da sciroppo d'acero, i miei preferiti.

Lui si appoggia alla superficie liscia del bancone e mi scocca un'occhiata. <<Quello che festeggiamo sempre: noi>> mi risponde, come se la domanda che gli ho appena fatto fosse la più ovvia e scontata del mondo. Ma se c'è una cosa che ho imparato col tempo è che niente è ovvio o scontato con Justin Bieber.

Sono passati tre anni e mezzo da quella sera, la sera del diploma, la sera in cui decise di lasciarmi. Dopo lo sconforto iniziale, mi dissi che non potevo, non potevo permettere a me stessa di lasciarglielo fare. Perciò, corsi fuori dalla mia stanza più veloce che potessi per raggiungerlo; lui stava già per varcare la porta d'ingresso e di quello che successe dopo ho solo un ricordo sfuocato: non so se fu a causa della mia goffaggine o della vista ancora annebbiata per le lacrime che mi erano scese a fiumi, ma finii con l'inciampare e rotolare per mezza rampa di scale. Un'ora dopo ero su un letto del pronto soccorso mentre un medico mi fasciava il polso fratturato, con Justin al mio fianco. Ero così arrabbiata con lui che non pensai minimamente alla mia frattura e gli scagliai contro una marea di insulti uno dopo l'altro che ebbero solo l'effetto di farlo ridere come un forsennato. Poi, accadde l'inaspettato: mi misi a ridere insieme a lui, risi così forte che mi vennero i crampi alla pancia. Il dottore ci guardò come se fossimo due pazzi e forse un po' lo eravamo. Era una situazione tragicomica, lo so, e credo che fu allora che si rese conto che non potevamo stare lontano l'uno dall'altra. Insieme eravamo una forza della natura, divisi eravamo un completo disastro. Ed io questo lo avevo capito già, ma se avessi saputo che sarebbe bastato un polso rotto per farlo capire anche a lui, con ogni probabilità avrei fatto in modo di rompermelo molto tempo prima.

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