Capitolo 14.

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                     Dall'inizio

«Che se te ne vai non mi lasci un vuoto, mi lasci un buco nero»

Jess
«Ciao mamma, ciao papà» saluto, mettendo piede dentro la dimora che mi ha ospitata per i primi anni della mia vita.
Mi scrutano, accennando un sorriso, senza degnarsi di avvicinarsi e chiedermi come stessi.

Non sono cambiati, in fin dei conti. Non potevo sperare che ritornando dopo anni da loro, potessimo recuperare tutto il rapporto che hanno deciso di chiudere.

Prendo il borsone posato per terra, sull'uscio della porta d'ingresso e mi dirigo al piano di sotto, nella 'mia' camera.

Ma non è più la stessa. Non è rimasto niente che lasciasse un mio ricordo. Neanche una fotografia. Insomma, Jess, bentornata a casa.

Poso la borsa sul letto, notando come anche le lenzuola non siano più le stesse.
Scruto con la coda dell'occhio mio nipote, intento a gattonare per terra, ridendo.

«Mi spiace che tu non possa avere una famiglia come non l'ho avuta io» inizio a dirgli, guardandolo, come se mi capisse.
Continua a sorridermi, gattonando ancora.

Ma perché son venuta qui?
Sono scappata da ciò che poteva rendermi felice per ritornare in quello che mi ha resa una ragazza apatica.
Sospiro, poggiando il palmo della mano sul letto, sollevando la testa.

La mancanza di Caleb mi sta lacerando dentro. In questo momento avrei bisogno di sentire la sua voce, così rassicurante.
Vorrei potergli raccontare la mia storia e chi son realmente, giuro che vorrei perdutamente farlo.

Ma ciò che prende il sopravvento, è la paura.
Paura un giorno possa allontanarsi da me.
Dimenticarsi della mia storia, delle mie parole, delle mie lacrime e delle mie gioie.
Paura di aprirmi finalmente con qualcuno e pentirmene poco dopo.

Anche se so che con lui non è così.
Caleb non è così.
È impossibile allontanarsi da lui. Quell'aspetto così tenebroso, oscuro, misterioso. Dio.
Ti trascina all'interno del suo mondo senza darti via d'uscita.

«Gagà», dice il piccolo, distraendomi.
Batte le mani, sorridendo con soltanto un piccolo dentino in vista.

«Cosa combini, bambino» mi rivolgo a lui, sorridendo e prendendolo, poggiandolo sulle gambe. «Non vuoi essere neanche tu qui, eh?»

Continua a fissarmi con volto interrogativo. Come dargli torto, in fin dei conti. Gli risulterò una pazza che parla in maniera indecifrabile.
«Promettimi che non cominci a frignare» riprendo, baciandolo sotto il collo.

È così bello. Il suo naso così piccolino e le sue labbra a forma di cuore. È un amore.
Assomiglia molto a mia sorella, poco a suo padre.

Mia sorella è sempre stata la preferita in casa. Non perché fosse più brava nello studio o nello sport, anzi. In quello compensavo io.
Ma abbiamo (o meglio, ho) avuto la sfortuna di nascere in una famiglia che non conoscesse valori.

All'età dei sedici anni, su per giù tre anni fa, decisi di tagliarmi i capelli, facendoli corti come un mio cugino. Era una sorta di scommessa, insomma.

Da lì, è cominciato totalmente il mio inferno. 'Sei una lesbica del cazzo', 'dovresti vergognarti, guardati allo specchio', cominciarono a dire i miei genitori.

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