Capitolo 36

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              Ritorno alle origini

«Conviene, finché si è in tempo, scappare e rifugiarsi in sé stessi. Soltanto così si ritrova il giusto equilibrio per cadere, rialzarsi e ricominciare» Cit.

Nell'aprire la porta del mio studio, sento un brivido percorrermi lungo la schiena. Era da tanto che non consideravo questo posto una casa.

Mi richiudo lentamente la porta alle spalle, emanando un sospiro.
Da quando non ho più il supporto di Diana, lo studio ha subito una notevole trasformazione.

«Lei è il signor Manley?» mi rivolgo gentilmente ad un uomo seduto sul divano, con un giornale in mano.
«In persona» piomba subito in piedi quest'ultimo, porgendomi la mano.

«Scusi per l'attesa» mi scuso, ricambiando la stretta.
«Prego, mi segua» gli faccio cenno, facendolo entrare dopo di me dentro la sala principale.

Mi sbottono il cappotto, poggiandolo sul nuovo appendiabiti e dal cassetto prendo per chiavi per aprire il mobiletto.
«Cosa vogliamo tatuare?» interrompo il silenzio che era calato in stanza.

«Oh, vorrei che lei mi tatuasse questo» risponde, fuoriuscendo dalla tasca posteriore del pantalone una fotografia, accartocciata.
Però, niente male.

«Di chi è quest'occhio?» gli chiedo, infilandomi al tempo stesso dei guanti e prendendo una lametta usa e getta.
«È di mia figlia» risponde, accennando un sorriso.

«È un bel gesto da parte sua. Dove vorrebbe glielo riproducessi?» continuo a domandargli, avvicinando a me l'occorrente.

«Qui» mi indica lui, - «proprio qui, dietro il collo» Annuisco, cominciando ad inumidirgli la parte interessata e con una lametta usa e getta eliminare i peli in eccesso.

«Bene, iniziamo. Per qualsiasi dolore, mi avvisi ed io interrompo» lo incito. E nell'inserirgli l'ago nella pelle, emetto un respiro di sollievo.
Questo sì che mi permette di rilassarmi e non pensare a quel che la mia vita attualmente.

Uno schifo.

«Questo studio è tutto suo?» mi chiede l'uomo, strattonando il lettino di pelle sul quale è steso.

«Sì», gli rispondo, non distogliendo minimamente lo sguardo dal tatuaggio che sta cominciando a prendere forma.
«È strano che un semplice ragazzo abbia in mano tutto questo, data la sua giovane età. Dimmi figliuolo, quanti anni hai?»

«Ventidue» ribatto. - «Concordo pienamente con quel che lei dice signore, ma nella vita vengono fatte delle scelte»
«Come in amore» mi dice.

«Forse sì» rispondo con un unico tono di voce, deglutendo subito dopo.
«Non volevo toccare un tasto dolente, mi spiace» riprende a dire lui.

«Non è un problema. Ha ragione lei, si fanno scelte anche per amore» gli rispondo, accennando un lieve sorriso sul volto.

Mesi fa probabilmente non mi sarei aspettato di rispondere ad una domanda simile in questa maniera. Avrei sicuramente deviato il discorso o mi sarei rivolto in maniera inadeguata.

Allora è proprio vero che per amore si cambia? Che in amore si cambia?
«Io ho un amore viscerale per mia figlia. È la luce dei miei occhi. Sono così tanto orgoglioso di lei» mi racconta.

«È una bella cosa» rispondo.
A dire il vero non so se lo sia. O cosa si provi.

Mi ha raccontato piccoli dettagli della sua vita, del suo lavoro e del rapporto travagliato con sua moglie.
Tutte parole per le quali mi limitavo ad annuire.

Il tasto 'famiglia' non è esattamente ciò di cui mi piacerebbe parlare con un cliente. O tantomeno parlarne a me stesso.

«Ci siamo quasi» riprendo a dire, allontanandomi con la sedia con le ruote ed afferrando della carta.
«Bene» sospira, mentre lascio scorrere la carta dietro il suo collo, pulendo il tatuaggio ed eliminando l'inchiostro in eccesso.

«Mi scusi cinque minuti, devo raggiungere la sala d'aspetto e ritirare la fasciatura per coprirle il tatuaggio. Abbiamo terminato, comunque» lo rassicuro.

L'impatto tra una stanza e l'altra è evidente.
C'è molta aria consumata qui.

Probabilmente dovrei dargli ascolto, probabilmente avrei bisogno di personale che si occupasse della pulizia. Avrei bisogno di un nuovo assistente e di qualche attuatore in grado di sostituirmi.
Più vado avanti e più mi risulta difficile gestire tutto questo.

Sospiro e raggiungo l'armadietto, aprendolo e ritirando l'occorrente.
Penso di chiamare Diana, questa sera. Vorrei davvero mi raggiungesse qui e tornasse a lavorare per me.

«Eccomi» esclamo, rientrando in sala.
«Eccoti» mi risponde lui, sorridendo. - «Hai davvero una grandiosa fanciulla», riprende a dirmi.

«Come scusi?» domando, sentendo una voce schiarirsi alle mie spalle.
Bene.

«Oh, no» chiarisco. - «Lei non è la mia ragazza. Si chiama Jessica»
«Abbiamo già avuto modo di presentarci» interviene lei, avvicinandosi poco a me. Indietreggio spontaneamente, andando incontro al mio cliente e coprendogli il tatuaggio.

«Bene» mi rivolgo a lui. «Abbiamo concluso. Sono ottantacinque dollari» cerco di dargli fretta, in modo da poter uscire anch'io da qui, senza restar solo con lei.

«È sicuro di aver preso quel che deve? Immaginavo di spendere molto di più» mi dice, porgendomi i contanti.
Scuoto il capo, afferrandogli ed afferrando al tempo stesso il mio cappotto, uscendo dalla sala.

«Dove credi di andare?» mi dice lei, posando una mano sulla mia spalla.
Mi giro senza esitazione, fulminandola con lo sguardo.

«Cosa diamine vuoi ancora da me?» sembro quasi urlarle contro. Sono disperato.
«Mi dispiace, Caleb»

«Questo lo so», esclamo a voce ben alta. «E questo non cambia le cose»
«Mi hai dimenticata, non è così?» mi chiede, alzandomi la voce.

«Ma ti droghi?» chiedo a mia volta, portandomi le mani tra i capelli.
«No che non ti ho dimenticato. Per mia sfortuna non l'ho fatto, dannazione. Sono passati soltanto cinque giorni da quando ho lasciato quella maledetta casa.

Cinque.

Cosa pretendi? Cosa pretendi da me?» riprendo a gridarle sopra la sua voce, dando di matto.

È come se volessi darle la colpa di tutti i miei problemi. Di tutti i problemi che fino ad oggi non le ho fatto pesare.

«Dove vivi?» mi chiede, non facendo caso alle mie parole. «Con una donna?»
«Non ti dirò dove alloggio, Jessica» le chiarisco. «Ma se la tua paura è che io possa andare a letto con qualcuna, stanne certa che è la prima cosa che farò uscito da questa porta».

«Caleb...»
«Caleb un cazzo» sbraito, uscendo da quello studio e piantandola lì.

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