Capitolo 4.

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                       Ti aspetto

«Ti hanno calpestata troppe volte, ma tu splendi sempre piena di lividi.» G. Lancieri.

due giorni dopo.

Ennesima giornata conclusa.
Soliti adolescenti pieni di domande inerenti ai loro tatuaggi, soliti orari, solite espressioni.
Solito tutto.
«Frettoloso stasera?» mi domanda Diana, vedendomi chiudere ogni finestra.
Scuoto la testa. «È venerdì» sorrido.

Incrocia entrambe le braccia, guardandomi. «E da quando avresti così tanta fretta di chiudere il venerdì sera?»
«Quante domande, Diana. Ho da fare» ribatto secco, mettendo le chiavi all'interno del cappotto e andando via.

Il vento sembra quasi essersi bloccato, si sente ancora una leggera umidità nell'aria.
Respiro a pieni polmoni e prendo il cellulare posto nella tasca destra del mio jeans, osservando l'orario.

Sono le 20, su per giù. Non che abbia fretta, ma avrei un'uscita con Jes, la quale non mi ha più dato sue notizie da quando ha accettato la mia proposta.

Non che lo desiderassi più di tanto, ma vorrei conoscerla quel che basta per capire cosa la spinge ad essere così arrogante. E poi liquidarla.

«Buonasera» espongo a voce ben alta, entrando nel bar per il quale lavora.
Al bancone ci son due ragazzi più o meno sulla quindicina, ma di lei neanche l'ombra.
«Salve. Può accomodarsi al tavolo in fondo, verremo a breve per l'ordinazione» rispondono cordialmente ad unisono, indicandomi anche il divano.

«In verità cercherei Jes. Scusatemi, Jessica. Lavora qui?» domando, arrivando al dunque.
Uno dei due ragazzi, annuisce. «È un attimo impegnata con il suo superiore, può aspettarla, se vuole. Ma non credo che vengano permesse visite durante gli orari lavorativi»

«Farò in fretta» rispondo, andandomi a sedere sul divano ed ordinando un caffè, per sentir meno l'attesa.

Non vorrei che mi avesse fatto questo per vedermici cascare come un allocco, non glielo perdonerei. È vero che non mi sono comportato nel migliore dei modi con lei, ma ho sempre cercato di andare oltre, dopo.
Non mi è stato concesso e va bene.

Ma adesso che è stata lei a confermare ed accettare questa mia bizzarra proposta, non capisco il suo atteggiamento.
O probabilmente è davvero impegnata con il suo superiore e non appena finirà, verrà qui ed usciremo insieme.
Ma in fin dei conti, non mi importa più di tanto.

«Caleb» le sento dire, venendo verso la mia direzione.
«Jessica» rispondo senza esitazione, alzandomi.
«Allora, non voglio risultarti arrogante nei modi che ho d'espormi, ma non voglio uscire» e la butta lì, tutto d'un fiato.

«Cosa?» resto sbigottito.
«Non posso» specifica lei, abbassando la voce.
«Non puoi o non vuoi?»
«Non posso», ripete.

«Perché?» sbuffo, inarcando un sopracciglio.
«Jessica» una voce maschile richiama la mia attenzione.
«Ecco perché» dice, alzandosi. «È il mio capo»
Ma cosa succede?

«Eccomi» alza la mano, raggiungendolo.
La seguo, mantenendomi ad una certa distanza, per non risultare invadente.
Mi accomodo su un divano posto di fronte al bancone, dove Jes ha raggiunto il suo capo.
«Dovrai fare due ore di straordinario oggi» accenna a voce ben alta l'uomo.

Jes gli annuisce, per poi guardarmi e fare cenno di andare via.
Beh, non in questo modo.

«Non ci sarebbe nessuno disposto a sostituirla?» domando, avvicinandomi ai due.
Jes non incrocia il mio sguardo, probabilmente presa dall'imbarazzo o dalla vergogna. È strano vederla così.

«È il suo lavoro, ed è suo compito esserci in caso di straordinari» ribatte secco lui, scrutandomi. «E poi tu chi saresti?»
«È venerdì sera, gli straordinari dovrebbero valere doppio», preciso.
La vedo darmi una gomitata, tenendo ancora lo sguardo chino.

«La sua paga rimarrà quella, indipendentemente che sia venerdì o meno» continua a controbattere, liquidandoci e lasciandoci di sasso.

«Ti direi che mi dispiace, Caleb. Ma non sono il genere di ragazza che chiede scusa» mi dice, non appena il suo capo oltrepassa la porta dietro al bancone.

«Dispiacerti per cosa?», le chiedo.
«Per aver mandato all'aria tutto, anche se non avevamo organizzato nulla di concreto, a dire il vero. Mi spiace che sia finita così»
«Finita? Io direi che abbiamo appena cominciato» sorrido, sollevando un angolo della bocca e dirigendomi verso uno dei due ragazzi dietro al bancone.

«Che diamine ti salta in mente?» mi urla contro, vedendo il suo collega togliersi il grembiule in vita e prestarmelo.
«Ti aiuto a lavorare, così concludiamo prima e possiamo uscire. E no, non vorrò parte dei tuoi soldi» dico, alzando le mani.

«Jes, sai che non l'avrei mai fatto. Ma in cambio mi spetta un tatuaggio gratis, per cui, goditi la serata» le dice il suo amico, venendomi incontro e dandomi il cinque.
«Caleb, no» mi ordina lei, lasciando comunque andar via il ragazzo.

«Invece Caleb si», ironizzo.
«Vai al diavolo»
«Scusami?» domando, prendendola per un braccio e girandola verso di me, vedendola allontanarsi. «Ti sto cedendo il mio aiuto e questo è il ringraziamento?»

«Non devi farlo. Non ho bisogno della compassione di nessuno», sbotta.
«Ma quale compassione. Dovevamo uscire o sbaglio? È un modo per trascorrere comunque la serata insieme, prendila in questo modo» le strizzo un occhio, dirigendomi verso il bancone.

Si siede sul divano di fronte, accavallando le gambe e mangiandosi le unghia, nervosamente.
«Mi scusi»
«Si?» rispondo ad una ragazza seduta davanti a me. «Ha bisogno?»
«Vorrei un caffè, per favore» mi chiede.
Merda. E chi diamine sa preparare un caffè?
«Senz'altro» le rispondo, guardando Jes e chiedendole aiuto, la quale scuote la testa.
Iniziamo bene.

Inserisco dei chicchi di caffè all'interno della macchinetta, premendola ovunque affinché esca fuori il tasto d'accensione.
Ma quanto è complicato questo aggeggio?
«Signore?»
«Un attimo soltanto» rispondo, senza voltarmi.

«Faccio io» interviene Jes alzandosi e venendomi incontro.
«Si, è meglio che lo faccia lei. Sa, è molto più brava di me» sorrido appena, accarezzandomi i capelli dietro la nuca preso dall'imbarazzo.
Non era esattamente così che avevo programmato la serata.

«Ecco» torna poco dopo Jes, con il caffè caldo all'interno di una tazzina color nero opaco.
«Non penso sia il mio mestiere, questo» le sussurro.
«Direi proprio che non è il tuo forte» sorride anche lei, per la prima volta.

Ha un bel sorriso, il classico sorriso a trentadue denti e tutti brillanti.
Peccato che non sappia sfruttarlo al meglio, però.

«E adesso che si fa?» le domando, vedendo il locale vuoto.
«Aspettiamo nuovi clienti», risponde.
Alzo lo sguardo verso l'orologio, scrutando l'orario. «Quasi alle 22?» sorrido appena.
E sorride anche lei, ancora.

«Sei proprio un cretino» ammette.
«E tu sei carina quando sorridi»
«Ah», si lamenta. «Che disgustoso che sei»
Le faccio una linguaccia, strizzandole un occhio.

«Sei tanto carino quanto disgustoso», sorride ancora, abbassando lo sguardo.

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