Capitolo 35.

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           Essere l'eroe di sé stessi

«E ho deciso che sarò felice, volando alto sopra le critiche cattive e i giudizi sommari di chi non mi conosce. E ho deciso che sarò felice, amando chi non merita il mio amore e ignorando chi merita di essere ignorato. E ho deciso che sarò felice, trovando il coraggio di essere me stesso e non l'immagina riflessa agli occhi del mondo». Cit.

Non avrei mai immaginato di aver mai dovuto bussare questa porta, un giorno.
Probabilmente sono nell'ultimo posto in cui in questo momento vorrei essere.
Per ora, dovrò accontentarmi, fare un sospiro e cercare di farmi andare giù questa situazione.

«Caleb?!» mi apre lei, restando sbigottita nel vedermi. A dire il vero, è da un po' che non ci incontravamo.
Il suo tono risulta più incredulo che sorpreso.
«Posso entrare?» rispondo senza esitazione, poggiando la mia valigia alla soglia della porta, la quale attira la sua attenzione.

«Questa cos'è?» mi domanda a sua volta, sbarrando gli occhi.
«Cazzo Shay, mi fai entrare?» ribatto secco. Ero già preparato al suo interrogatorio, ma immaginavo di superare la soglia prima ancora che iniziasse a parlare.

«Cosa succede?» continua a chiedermi, facendo cenno di entrare e socchiudendo la porta alle nostre spalle. - «So che non hai voglia di parlarne, ma fammi capire».
Mi lascio andare sul divano, sospirando profondamente.

«Posso restare qui per qualche giorno? Non ti ronzerò attorno, non mi interessa affatto. Ho soltanto bisogno di tempo per trovarmi una sistemazione».
Annuisce, sedendosi al mio fianco.
«Certo che puoi rimanere, Caleb. Hai avuto una discussione con lei?» domanda, abbassando il tono di voce nel dire l'ultima parola.
Lei.

«A dire il vero abbiamo rotto» chiarisco da subito non incrociando il suo sguardo e portandomi una mano verso la nuca, arruffandomi i ricci.

«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto» riesce a dirmi, cercando di consolarmi. O forse provando compassione.
Io non ho bisogno della compassione di nessuno.

Non sopporto che adesso mi ronzino tutti attorno per essere informati sull'accaduto o per fare i finti dispiaciuti.
Ho bisogno di restare un po' solo con me stesso.

Ho bisogno di essere l'eroe di me stesso.
Loro non lo sanno come ci si sente. E non lo so neanche io.
Non sto bene, no. Ma non mi sento neanche di dire di star male.
Tutto quel che riesco a percepire è rabbia, indifferenza, pena.

Forse non dovrei essere nemmeno qui.
Forse dovrei andare da Richard ed ascoltare anche la sua versione mentre lo inchiodo al muro.
Forse sarei dovuto tornare a Medford.
«Tranquilla, è tutto okay» le rispondo infine, massaggiandomi le tempie. - «È tutto okay».

«Vorrei davvero che tu me ne parlassi, vorrei poterti aiutare e...»
«Nessuno può aiutarmi» la interrompo, non facendole finire il discorso. Il mio sguardo diventa ferreo verso il suo e sento la mascella contrarmisi.

«Quel che voglio dirti è che non sono la bambina arrogante che lei ti ha fatto credere. E che se hai bisogno di essere ascoltato, io sono qui» conclude, posando una mano sopra la mia per qualche secondo ed alzandosi subito dopo, raggiungendo la cucina.

«Bambina lo sei stata. Ci hai provato con me mentre ero il tuo superiore. Hai fatto in modo che lei si ingelosisse ogni qualvolta vi incontravate. Questo non l'ho dimenticato» le tengo presente, sorridendo appena.

Ricordo quanto fastidio Shay mi desse quando assumeva quegli atteggiamenti. Ma se le paragonassi a quel che infine si è rivelata Jess, probabilmente mi sarei ricreduto.

«E cosa di tutto questo ti fa sorridere?» aggiunge lei, sorridendo a sua volta, accendendo la macchinetta del caffè.
«Non lo so» rispondo sinceramente. - «Preferisco sorriderci su, adesso».
Annuisce, inserendo una cialda all'interno della macchinetta e ritornando nel salone.

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