Capitolo 39.

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Piccoli sussurri

«A volte bisogna rassegnarsi all'idea che le persone ci mancano. E ci mancano a tal punto che la loro assenza inizia a far male» Cit.

Il terzo whisky lo mando giù a fatica, schiarendomi la gola dando dei colpetti di tosse.
Sono rinchiuso qui dentro da quasi un'ora ormai e la barista sembra essersi stancata della mia presenza.

O meglio dire della mia più totale assenza.
Chiedo da bere e la osservo, senza pronunciare parola alcuna. La osservo e mi ricorda tanto lei, quando lavorava a Medford nel locale accanto al mio.

Impacciata, cafona, distratta ma maledettamente bella.

«Un altro, per favore» le chiedo per la quarta volta, questa volta soffermandomi sulla sua uniforme e la minuscola gonna che ha indosso.
Se lei avesse indossato una roba del genere, penso che avrei dato di matto.

«Te lo cedo soltanto perché è il mio lavoro» risponde un po' seccata, versandomelo. «Ma non ridurti uno straccio soltanto alle undici del mattino»

«È un mio problema, mocciosa» le faccio presente, scolandomi il bicchiere per poi posarlo sul tavolo applicando una leggera pressione. «Come ti chiami?»

«Vuoi bere fino a perdere i sensi e rimorchiare la barista nel suo bar? Perspicace» ridacchia, togliendomi il bicchiere ormai vuoto da sotto al naso e sciacquandomelo.

«No» ridacchio a mia volta, sentendo la testa scoppiarmi. «Ma diciamo che sono attratto dalle bariste. Da una in particolare»

«Me?» chiede lei, riponendo il bicchiere al suo posto e spolverando per la sesta volta il bancone per il quale sono poggiato.

Scuoto il capo. «Mi dispiace rossa, ma non sei tu. Si chiama Jessica»

«Okay» mormora lei facendo spallucce, per poi allontanarsi e dirigersi verso le tre ragazze entrate nel locale. «Avete bisogno?» le sento dire.

Nel voltarmi, noto che tutte e tre le ragazze (o meglio quattro, se consideriamo la barista), sono intente a guardarmi, non battendo ciglio.

«Cosa avete da guardare?» ribatto infastidito, arruffandomi i ricci e sospirando profondamente.
Una delle ragazze, la biondina, si avvicina a me e mi sussurra vicino le labbra, toccandomi i ricci, «sei davvero uno schianto».

Di scatto mi sollevo guardandola per qualche secondo prima di raggiungere il bagno e prendendo il cellulare tra le mani.

Sento la testa esplodermi.
Poggio una mano sul lavabo del bagno e sospiro profondamente.

Sblocco il cellulare e digito il cellulare di Alison, la moglie di Richard.
«Caleb» risponde immediatamente lei, con aria un po' preoccupata. «Speravo mi chiamassi da tempo a dire il vero»

«C-ciao» le dico, sentendo la voce cedermi e gli occhi farsi pesanti. Deglutisco e alzo lo sguardo guardando il soffitto, cercando di non far uscire le lacrime.

«È tutto ok?» mi domanda.
«Cazzo, mi manca. Mi manca ogni fottuto giorno di più» le dico sinceramente con un nodo alla gola, per poi guardarmi allo specchio e guardare le lacrime scorrere velocemente lungo il mio viso.

«Dove ti trovi adesso?» chiede. «Passo a prenderti e parliamo un po'»
Scuoto il capo, immaginando che riuscisse a vedermi. «Dimmi che sai dove posso trovarla. Per favore Alison, dimmelo» sembro quasi urlarle contro disperato.

Lei sospira e in un primo momento tace, non sapendo cosa dirmi.
«È tornata a casa dei suoi genitori, Caleb. È tutto ciò che so» ammette.

Respiro profondamente ed apro l'acqua del lavabo del bagno, lasciandola scorrere per un po' prima di sciacquarmi il viso.
«Dov'è Richard, invece?» domando, serrando le mascelle soltanto nel pronunciare il suo nome.

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