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Daniel

Prendere un respiro sarebbe stata l'unica cosa che avrei desiderato. Riempire i polmoni di una ventata generosa di ossigeno, tramite le sottili narici, percepire l'aria penetrare in esse, fresca, limpida. E sentirsi rigenerati.
Ma il fiatone, causato dalla mia corsa per le strade della periferia torinese me lo aveva impedito. Passo dopo passo, percorrevo rapidamente ogni marciapiede che i miei piedi calpestavano sperando di non fermarmi nel preciso istante in cui mi lasciavo ogni metro alle spalle.
Con l'aria quasi tiepida sul viso, avevo percorso un buon chilometro muovendo simultaneamente braccia e piedi. E soltanto una volta di fronte al portone di casa mi ero reso conto di quanto lontano mi avessero portato le mie gambe. Affaticato, ero subito entrato in casa, sperando di non essere sentito da nessuno.
I sensi di colpa sarebbero stati i primi a farmi visita, in casa. Sia per l'orario tardivo in cui avevo messo piede in camera mia, sia per il comportamento che avevo tenuto in quella serata di fine primavera.
Ma il mio respiro affannato mi tradí.

"Cosa ci fai sveglio a quest'ora?". Vanessa, di fronte a me avvolta nel suo pigiama rosso a maniche di tre quarti, mi osservava con tono di rimprovero.
"Vorrei dormire" lamentò poi, incrociando le braccia al petto, lo sguardo Severo al sottoscritto.
"Sh, Vanessa. Lasciami in pace" risposi a tono, sollevando una mano per aria e sentendomi osservato mentre percorrevo, in vari movimenti per il corridoio, gran parte della casa.
"Ci metto nulla a dirlo a mamma" disse, alzando il tono.
"Smettila, va bene?". Le domandai.
L'unica cosa che avrei voluto sarebbe stata quella di riprendere fiato. Non di perderlo in discorso superflui.

Entrando in camera mia e richiudenro delicatamente la porta, mi lasciai alle spalle le parole di Vanesa che, probabilmenge assonnata, non aveva avuto voglia di ribattere ulteriormente.

Sedendomi sul letto, potei finalmente respirare. Spogliandotomi dei miei abiti notai a che velocità il mio petto si sollevasse e si abbassasse. Avevo avuto un deficit respiratorio non indifferente. Il cuore, poi, continuava a pulsare a una velocità impressionante.

"Merda..." imprecai, Passandomi una mano fra i capelli, che stropicciai. Afferrando una ciocca densa e bionda fra le dita mi resi conto di quanto fossero cresciuti. A breve avrei dovuto andare a tagliarli.

Sdraiatomi sul letto, iniziai ad avvertire ciò che prima avrei già previsto venisse a farmi visita. I sensi di colpa.
Non potevo credere a quello che fosse appena successo. Come avevo potuto comportarmi in un dato modo?
Ero ancora me stesso o mi ero fatto trascinare così tanto in basso da non poter più sperare di riemergere?

Dalla festa, probabilmente saturo di luci, musica e colori, avrei solo voluto tornare a cada in taxi. Il freddo della notte mi faceva rabbrividire, mentre l'alcool, sebbene non fosse stato molto, mi aveva infastidito. Ero certo che se fossi andato a piedi mi avrebbe fatto vomitare ma poi, notando la mia disponibilità in contanti nel portafogli, capii che il rigurgitare shottini sarebbe stato forse l'ultimo dei miei problemi. Se non addirittura una soluzione.

Dalla mia sicurezza iniziale ero poi passato a svariati dubbi. E se a casa non fossi arrivato sano e salvo? Potevo adottare una via di mezzo. Chiamare un taxi e farmi accompagnare solo fino a un certo punto. Il resto lo avrei percorso di corsa.

A quell'ora, in mezzo al corso, il traffico era ridotto a qualche automibile che sfrecciava a velocità al di lá del limite stabilito con semafori dal colore rubro, che s'irradiava nel buio della notte.

Non avevo idea di quanto fosse il percorso dalla festa a casa mia; all'andata non mi ero neppure reso conto di quanto avessimo camminato a piedi. Dieci minuti, venti, tre quarti d'ora. Poco cambiava, perché non avrei mosso altri passi per rimettere piede in casa.

So che non sei tu e ti aspettoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora