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Agata

"Ciao, Emanuela".

La serata stava ormai volgendo al termine.
I raggi di sole, inoltratisi attraverso le fessure delle serrande, annunciavano di essere gli ultimi di giornata con la loro fievolezza. Alla parete di fronte a me, un quadro in stile modernista era diviso obliquamente a metá. Una parte bianca, una nera. A dire il vero non avevo mai fatto caso ai colori. Potevano essere anche crema e atrancite. I miei occhi non avevano mai analizzato bene cosa costituisse il piccolo ma concentrato studio di mio padre. A dire il vero non avevo mai potuto metterci piede. Così occupato anche a casa col suo lavoro, non mi lasciava entrare neppure per distrarlo un secondo dagli impegni con un paio di biscotti fumanti d'inverno e una coppa di gelato d'estate. Nemmeno se erano entrambi al cioccolato.

Osservando bene il quadro, mi accorsi che probabilmente era la luce a dividere, esattamente in due zone, quella tela colorata. Per modo di dire. Gli unici colori visibili erano il candore e il suo opposto.

Sí. Anche la sedia, posta esattamente davanti a esso, era tranciata letteralmente in due. Il sole giocava a rischiare ogni oggetto capitasse sotto la luminosità dei suoi raggi. Mentre quelli non sfiorati vedevano divorate le loro colorazioni nell'oscurità come punizione all'essersi sottratti alla sua presenza.

"Oh, cavolo, ha risposto!" esclamai, spostando lo sguardo sullo schermo del computer la cui luminosità si era abbassata. Nell'arco di pochi secondi sarebbe entrato in modalità stand-by.

Mi ero sorpresa per quanta prontezza avesse avuto nel rispondermi. Mi chiedevo se fossi l'unica a non tenere mai la suoneria accesa, anche a costo di perdermi delle chiamate di fondamentale importanza.

Ricordo un'occasione in cui i miei genitori, invitati all'apertura di una pasticceria di amici, mi avevano lasciata a casa da sola. Avrò dovuto avere attorno ai dodici anni. Avevo appena ricevuto in regalo il mio primo telefono per la promozione. Mia madre si era raccomandata di rispondere a qualsiasi evenienza, e di non addormentarmi per nessuna ragione. Ovviamente erano state parole sprecate al vento.
Mio padre aveva cercato di contattarmi così tante volte che aveva finito per tornare prima dalla sagra per paura che mi fosse successo qualcosa.
Forse era anche a causa di quello che non aveva più voluto sentir parlare di biscotti o gelati.

"E ora?" mi domandò il mio subconscio. Fui presa da un istante di panico, che mi fece portare una mano alla bocca, asciutta. Avevo bisogno di bere un sorso d'acqua. Ma non ero mai stata una che beveva molto e non avrei forse mai preso la buona abitudine di farlo.

"Ora si agisce, Agata" . Mi sentivo una stupida. Mi pareva non riuscissi neppure a prendere una decisione da sola senza che ci fosse qualcuno a dirmelo. Anche si trattasse solo del mio alter ego più coraggioso.

"Ti trovo molto carina" scrissi , avvertendo un conato di vomito che stava proprio salendo su per la gola. Come potevo essermi ridotta a usare applicazioni del genere anche solo per aiutare Daniel e Andrea?

"Mi dispiace, non sono lesbo" rispose, come previsto.
"Ma chi si crede di essere!" esclamai.
"Cosa la porta a pensare che fossi interessata a lei sotto quel punto di vista?".

Subito mi ricordai di non avere una foto profilo. Immediatamente cercai una foto di una donna di bell'aspetto su Internet. Tanto, in piccolo com'era, nello sfondo, non si sarebbe notata granchè.

"Non importa. Se vuoi possiamo fare due chiacchiere" proposi, sperando non rifiutasse la mia proposta. Avevo bisogno di parlare con lei.

So che non sei tu e ti aspettoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora