79-1217

57 8 2
                                    

Daniel

L'ultimo giorno di scuola si percepiva nell'aria. Non serviva guardare un'agenda per rendersi conto che fossimo giunti al nove di giugno. Il chiarore del cielo lasciava intendere fosse ormai il sesto mese dell'anno ma non dava informazioni sufficienti per permettere di stabilire il giorno preciso. Forse a parlare più chiaro sarebbe stato lo zaino. Solo il nove giugno poteva essere di una leggerezza tale da non poter essere percepito sulle spalle. Al suo interno c'era poco o niente. Il diario, una penna simbolica e i fazzoletti.
Il pacchetto che avevo aperto per l'ultimo raffreddore, avuto nel mese di marzo, era rimasto pieno per metà. Da lí, non li avevo più utilizzati, nemmeno per pulirmi dopo aver mangiato qualcosa. Per forza, usavo sempre quelli di Agata. Portava sempre con sé dei mini pacchetti super colorati, con i personaggi della Disney. Riteneva fossero cosí infantili che voleva l'aiutassi a tutti i costi  a finirli il prima possibile. Io, invece, li trovavo carini. Erano profumati. Sua madre li comprava per sé, diceva. A mio dire, poi li rifilava alla figlia.

Con le mani sulle bretelle dello zaino, osservavo davanti a me, con un sorriso stampato in volto. E respiravo, inalando quell'aria che, per quanto frizzante, di pulito aveva ben poco. Torino era sempre più inquinata. Quel duemiladiciotto si prospettava uno dei piú inquinati degli ultimi dccenni. Poco male. Nel giro di qualche giorno sarei partito per la montagna e quell'aria non mi avrebbe piü intossicato.
Improvvisamente, tossii. Mi stavo raffreddando con quella temperatura cosí mite?
"Cosa fa?! È rosso!". Alla mia destra, un signore sulla quarantina, imprecò allungando il braccio davanti a sé. Le sue urla mi destarono dai miei pensieri. Un'auto, col motore rombante, girò l'angolo provocando la fuoriuscita del gas di scarico che diede origine a una nube nera, che faceva venire il voltastomaco. L'odore di benzina non mi era mai piaciuto.

Il semaforo verde scattò una decina di secondi dopo, consentendomi di attraversare, ancora infastidito dall'odore di benzina. Ma in un attimo tornai a pensare a ciò che tanto mi stava stupendo.

Era incredibile come il tempo fosse trascorso. Ormai alla fine della quarta superiore, sentivo già l'ansia per la maturità un anno prima della sua effettiva avvenuta. Ma l'essere ormai catapultato in quinta mi faceva percepire tutto come se fosse immediato. La quarta, per me, era ormai giunta al termine. Anche se mancavano ancora un paio di ore alla fine di essa, era chiaro che nessuna verifica o interrogazione sarebbe stata posta per modificare le nostre valutazioni, ormai indelebili sulle nostre pagelle. Che, da adulti, avremmo forse riguardato pensando a noi appena diciottenni o quasi.

Le cose che avevo vissuto in quell'anno scolastico sarebbero state indimenticabili. Era stato un anno proprio speciale ed ero fortemente convinto che la quinta mi avrebbe reso protagonista di ulteriori esperienze che mi avrebbero fatto crescere. Ma, ovviamente, accanto a un mare di divertimento. Le esperienze migliori con le persone migliori.
Mi sentivo male al pensiero che, in poco più di un anno, tutto ciò sarebbe volto al termine. Ormai erano quattro anni che andavo al liceo. La quinta sarebbe stata l'ultima del ciclo. Ed ero certo che all'Universitá non avrei avuto tanto da ridere e scherzare. Soprattutto per la facoltà che avrei voluto frequentare.

La cosa che mi spaventava non era tanto quale percorso decidere di seguire dopo il liceo, cosa della quale non avevo discusso nè con i miei genitori, nè con i miei compagni. Ma più che altro l'essere consapevole che più alcuna storia sarebbe potuta essere vissuta. Nè più avrei sentito spettegolare ventiquattro ore su ventiquattro da parte di Melissa & Co, nè più alcuna capatina alle discariche per prelevare dai distributori qualche schifezza industriale. Nè più verifiche passate a copiare. Nè più suggerimenti dati a gratis. Mai più più danze di gruppo nelle ore buche di ginnastica.

In quarta superiore ero cresciuto più di quanto non avessi fatto in qualsiasi altro anno scolastico. Avevo dovuto affrontare l'incidente di Andrea, il suo coma, il suo difficile percorso di ripresa. E ancora la rinascita della nostra relazione, il nostro passo verso la prima volta, arrestato a un millimetro dalla sua realizzazione. E persino la presenza di Emanuela, la lontananza di Andrea da me per quattro infiniti mesi. Ma infine, la nostra splendida rinascita.

Con le mani in tasca, i pantaloni da tuta mai troppo sollevati per via della loro grandezza, le cuffiette candide nelle orecchie, percorrevo a piedi il percorso che mi separava da scuola. La mattina, l'aria era frizzante. Ormai intiepidita dal sorgere dell'estate, l'atmosfera lasciava presagire una classica giornata di fine primavera. Nei giardini delle case adiacenti alla via del liceo, le rose fucsia e color pesca erano sbocciate, inneggiando alla vita mentre una nuvola bianca in rapido movimento nel cielo lasciava che l'unica presenza candida fosse quella delle calle sparse qua e lá fra le erbacce di una villetta antica. Le sue mattonelle, così come le tegole del tetto, di un intenso cinabro, lasciavano presagire la sua vecchiaia.

L'odore della città, irrorata di fumogeni e benzina, in quella mattina di inizio giugno sembrava presentare in antitesi, profumo di fiori. Un lieve vento faceva scostare le foglie degli alberi che, tenere e chiare, come capelli dietro a un orecchio, si appoggiavano qua e lá sui rami.
Era quasi estate.

Il varcare la soglia del cancello con la consapevolezza che quello sarebbe stato l'ultimo di una sfilza infinita di giorni che, nonostante la loro quantità, erano giunti al termine, mi faceva rabbrividire. A poche ore di lí sarei stato un allievo di quinta. O di quinto, come spesso lasciava pronunciare alle sue labbra la sicula professoressa di arte.

Accanto a me, al banco, si contendevano il posto Melissa e Lucrezia. Agata, poco più in lá, nella fila di sinistra, osservava dall'alto del nostro secondo piano gli alberi dalle foglie chiare. Con la sua decina di metri di altezza, la finestra struttura scolastica consentiva una bella visione. Si riusciva a vedere tutto, anche la gente passeggiare fuori sui marciapiedi per quanto piccola, le strade colme di auto per la maggior parte cineree, rubre e corvine. Con la mano sotto al mento, chiusa a pugno e gli occhi piccoli e chiari, Agata guardava attentamente il mondo esterno, in cui sembrava essere così assorta da dare l'impressione che lei, di quel paesaggio, fosse parte. Con un sorriso delicato sulle labbra chiare sembrava quasi contemplare il paesaggio, nonostante lo conoscesse a memoria. Dall'inizio dell'anno nella fila a destra, salvo rare eccezioni, aveva sempre trascorso gli intervalli a guardare fuori dalla finestra quando la sua chiavetta priva di monete non le permetteva di fare una capatina alle discariche. Ma non solo. Durante le verifiche osservava la neve d'inverno, le gemme sui rami in primavera e le foglie multicolori d'autunno. Quei piccoli dettagli erano stati sempre a sua disposizione per essere osservati in un attimo di distrazione, subito rimproverato dalla professoressa della lezione corrente. Ma dopo un pentimento pronunciato in uno 'scusi' lo sguardo era attratto come una calamita da ciò che la natura aveva da offrire in quello scorcio rubato all'urbanità. Agata era un'osservatrice sensibile.

Ancora intenzionate a guadagnarsi il posto accanto al sottoscritto, non si curarono del mio pensiero. Se solo avessero chiesto, avrebbero compreso che a nessuna delle due sarebbe toccata la sedia alla mia sinistra. Andrea stava per arrivare.

So che non sei tu e ti aspettoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora