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Daniel

Sospiri. Erano l'unica cosa di cui riuscivo a nutrire il mio desiderio di continuare a vivere.
Il petto si sollevava, incamerava una grande quantitá di ossigeno. Poi, in un punto di non ritorno e dove la brama di gettarlo fuori d'un fiato era giunta al culmine, questo veniva soffiato via dalle narici. Ormai il solo respirare regolarmente era diventato pleonastico.
Accumulare fonte di vita per poi eliminarla in una sola volta era come tenerle testa, essere io l'artefice della mia respirazione. Ossia, della mia vita.

Aprendo una mano, adagiai un palmo nell'aere. Stavo toccando ció che mi faceva stare in vita senza rendermene conto. L'aria, invisibile, incolore, insapore, mi circondava.

"Quindi sono circondato da vita?" mi domandai.
"Cosa vuol dire ciò? Che se è vero, allora sono costretto a vivere?" mi chiesi.
"Ma se smettessi di respirare, non potrei più".

Ponendomi queste domande, volsi lo sguardo lontano, al di lá di ogni cosa. Dal basso del balcone della mia villa non potevo vedere molto. Ma la mia mente avrebbe potuto sostituire i miei occhi in quell'importante compito.

Con il solo pensiero attraversai la strada, i palazzi che si ergevano alti di una ventina di metri e subito, al di lá di essi, il paesaggio pseudo campagnolo in cui la mia villa con giardino e le altre accanto alla nostra erano immerse. Cosí, in pochi metri quadrati, l'ambiente rurale si sostituiva all'urbanità. Edifici adibiti a uffici, case dai sei, sette piani e corsi ampi e largamente trafficati introducevano la vera periferia del mio quartiere. Dove vivevo io sembrava addirittura di essere al di fuori di essa, in un contesto suburbano. Ma bastava percorrere mezzo chilometro per usufruire di ogni necessità: supermercati, scuole, ospedali si accostavano gli uni agli altri, assieme a banche e biblioteche, parchi e negozi d'abbigliamento.

"Non so se ce l'avrei mai fatta a vivere in un contesto di campagna" dissi fra me e me, mentre la mia mente viaggiava ancora e ancora. Allotanatasi ormai di un paio di chilometri da casa mia, stava ora viaggiando verso la mia scuola, in una zona lievemente più centrale rispetto a dove vivessi io.

Mezzi di trasporto, semafori e stradoni erano il contesto in cui era inserito. Per servire al meglio gli studenti e i frequentatori di quell'ambiente le fermate dei pullman e dei tram erano sparse a macchia d'olio, permettendo il collegamento con ogni altra parte della città e non.

La mia immaginazione mi portó fino alla fermata del pullman che portava alla fine della prima cintura torinese. Quel pullman faceva un giro pazzesco. Da un capolinea all'altro ci sarebbero volute quasi due ore. Era il pullman che Andrea prendeva per arrivare a scuola, per quasi metá del percorso totale del mezzo.

"Se avessi dovuto fare tutto il tragitto, dall'inizio alla fine, mi sarei dovuto svegliare alle cinque. Mezz'ora a prepararsi, due ore di viaggio e una ventina di minuti per attendere il pullman, che non si sa mai quando possa passare" mi aveva detto un giorno, ringraziando la mezz'ora che gli era stata risparmiata da quando aveva cambiato scuola. Lo stesso mezzo lo conduceva fino alla sua vecchia scuola d'indirizzo scienze umane. Ma il percorso si protraeva per una trentina di minuti in più.

"Non so come facessi ad alzarmi alle sei spaccate" confessò un giorno, scuotendo energicamente il capo.
Se ci pensavo, era terribile doversi alzare consapevoli del fatto che si facesse ció soltanto a causa della lontananza fra casa e scuola. Sarebbe bastata una distanza minima per potersi svegliare anche solo un quarto d'ora prima dell'inizio delle lezioni per garantirsi un sonno decisamente più appagante.

So che non sei tu e ti aspettoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora