•Capitolo trentotto•

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Ritrovarlo lì, in quello stato, mi aveva fatto spezzare il cuore, ma nello stesso tempo avevo una gran voglia di prenderlo a pugni e di gridargli quanto fosse immensamente coglione per aver affrontato tutto da solo, come sempre.

Doveva smetterla di chiudersi in se stesso e di soffrire da solo, si sarebbe fatto solo doppiamente male. Ma lui evidentemente non capiva, e continuava imperterrito per la sua strada, irremovibile sulla sua posizione.

L'unica cosa positiva era che almeno tutto ciò che racchiudeva in se stesso, lo buttava fuori attraverso le canzoni, forse lo faceva per sentirsi più libero o forse solamente perché la musica era davvero tutto ciò che più amava al mondo.

Era la sua vita.
Ed era anche la mia.

Guardai sul bancone e notai la sfilza di bicchieri oramai vuoti, ne aveva bevuti davvero così tanti? Ma la cosa più strana era che, nonostante ne avesse bevuti più di una quindicina lui non era del tutto ubriaco, o almeno così credevo. Ma poi notando i suoi continui sbalzi d'umore e la sua camminata barcollante, mi ricredetti.

«Vieni con me» gli dissi cercando di essere il più pacata possibile mostrandogli la mano.
Lui la guardò ma non l'afferrò, anzi si alzò dallo sgabello in cui si era seduto momentaneamente e venne verso di me, prima di avere un giramento di testa e quasi perdere l'equilibrio.
Lo sorressi, per poi mettermi un braccio attorno alle mie spalle e portarlo lentamente fuori.

«Ma hai bevuto davvero così tanto?» domandai.
«Giusto un pochino» rispose con voce roca, mostrandomi col polline e l'indice ciò che lui pensava avesse bevuto.
«Leggermente!» esclamai sarcastica.

Uscì fuori e li tastai le tasche per trovare le chiavi della sua macchina.
«Attenta a quelle mani, Sara, sono pur sempre un uomo, per lo più ubriaco» disse mostrandomi uno dei suoi sorrisi perversi, che mi fecero sorridere ma nello stesso tempo roteare gli occhi.

Aprì la macchina e lo poggiai sul sedile del passeggero, per poi chiudere la porta.
Dio, quanto era pesante!
Entrai e misi in moto la macchina, notandolo poi rabbuiarsi di colpo.

«Andiamo in hotel?» gli chiesi, non ricevendo nessuna risposta da parte sua. Parcheggiai quindi vicino ad un parco e mi voltai verso di lui.
«Filo, parlami» pronunciai preoccupata.

Mi guardò con una faccia da cucciolo e gli occhi e le guance rosse per colpa dell'alcol.
«Vuoi...»
«Si» non ebbi neanche il tempo di finire la domanda che venni interrotta da lui.

Sorrisi e gli presi la mano tatuata, intrecciandola alla mia.

«Il sedici marzo, di due anni fa, morì mia nonna...» iniziò mentre i suoi occhi ritornarono freddi e cupi. «Non ebbi neanche il tempo di salutarla o di farle sentire un mio pezzo. Quel giorno sembravo un mostro perché fui l'unico a non piangere, vedevo che gli altri mi
guardavano come per dire che cazzo... ma in verità mi tenevo tutto dentro... ed ora mi pento, avrei voluto stesse ancora qui con me, avrei voluto sentisse ciò che scrivo, avrei voluto dirle che quel concerto era il mio»
spiegò apertamente, citando la canzone che aveva dedicato alla nonna e che mi aveva cantato il giorno in cui mio nonno era in fin di vita.

Lo ascoltai, meravigliandomi di sentirlo sfogare con me e parlarne così apertamente come non aveva mai fatto prima, e questo quasi sicuramente era un altro effetto dell'alcol.

Una lacrima mi ricadde sul viso, ma subito l'asciugai, tirando poi su col naso.

Mi guardò incastonando i suoi occhi nei miei.
«Ma non è solo questo» sussurrò stupendomi.
Rimasi in silenzio aspettando che parlasse.
Guardò di fronte a se è poco dopo ricominciò.
«Avevo diciassette anni quando ebbi un figlio» spalancai gli occhi.
«Che cosa?» domandai con voce bassa quasi strozzata.

«Era una ragazza speciale, diversa dalle altre, era...»
«Rolex» lo interruppi, e lui spalancò subito gli occhi e poi annuì.

«Si, più o meno. In realtà si chiamava Roxy, ma il suo soprannome era Rolex, perché, nonostante il lavoro che facesse, era preziosa come quell'orologio.
Aveva un mondo dentro...»

«Perché parli al passato? È morta?» domandai curiosa.
«No, no, non distinguo i tempi perdonami» sorrise facendo riferimento alla sbronza.

«La trovai lì in una strada diroccata, con un vestitino che non le si addiceva e uno sguardo spento. Fermai la macchina, volevo divertirmi quella sera, ma poi tornai anche la sera dopo, e poi quella dopo ancora sperando di ritrovarla, divenne un abitudine, alla fine la pagavo, ma lei rifiutava i miei soldi, e all'inizio non capivo.

Ma più passavano i giorni più qualcosa cambiava dentro di me, non era più divertimento, avevo voglia di sentirla parlare. E quando parlava era uno spettacolo! Prendeva tutto per un'avventura ed era quello che più mi piaceva di lei. Aspettavo la notte e le chiedevo "parlami di te, ancora" e lei lo faceva, anche piangendo, ma non smetteva di farlo e io non smettevo di ascoltarla. Avevo paura di quello che mi stava succedendo, tanta paura. Facemmo l'amore e io con lei mi sentivo stranamente vivo.

Persi la testa per quella ragazza. Ormai era diventato un appuntamento fisso, lei mi aspettava al solito angolo e mi chiamava, ed io da solito codardo, avevo paura degli sgami e molte volte facevo finta non sentirla» fece una piccola pausa, mentre io non smettevo di stringergli la mano.

Doveva essere davvero speciale per lui quella ragazza!
Poi riprese.

«Un giorno, però, mi abbracciò e la sentì tremare, ricordo ancora le sue mani fredde come il ghiaccio, mi ripeteva che mi amava ed io non riuscivo a capire, piangendo, poi, mi disse che aspettava un bambino. Volevo andarmene il più lontano possibile da quel posto, ma lei mi pregò di non partire continuando a tremare, le lasciai il mio cappotto e scappai. Non mi feci vedere da lei per ben tre mesi, poi ritornai, mi mancava troppo, ma avevo paura ero troppo giovane ed era tutto più grande di me.
Tornai da lei ubriaco marcio, la misi in macchina e la portai non ricordo dove ad alta velocità, ero infuriato col mondo, con me stesso e con lei.

Ma poi andai fuori strada, andando a sbattere con velocità verso un albero, facendone cadere un ramo che finì sull'auto. Perse il bambino.
E solo allora mi resi conto di quanto ci tenessi. Da quel giorno non la vidi mai più.» concluse con gli occhi lucidi, mentre io oramai non controllavo più le lacrime.

«Oddio, Filo... mi, mi dispiace» sussurrai, mentre lui si voltò verso di me sorridendomi amaramente ed asciugandomi le lacrime col pollice.

«Vivo col rimorso da una vita» disse non guardandomi.
«Eri troppo giovane per capire, Fil, non volevi far...»
«Non cercare di giustificarmi!» urlò quasi facendomi rabbrividire.

«Non mi perdonerò mai»
«Filippo devi lasciar andare il passato che ormai è passato, non vivrai più così»
Scosse la testa.
Mentre una piccola lacrima gli rigò il viso.
Mi avvicinai al suo volto.

«Saresti stato un bravo padre» pronunciai sorridendogli, si voltò verso di me e mi sorrise.
«Per fortuna che ho te» disse per poi baciarmi.

Voglio solo te//Irama//Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora