•Capitolo dieci•

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«Nonno, nonno!» urlai piangendo, indicando la palla con cui io e mio fratello più piccolo stavamo giocando, finita sopra l'albero. Mio nonno mi venne incontro allarmato.
«Cos'è successo, piccolina» si allarmò lui abbassandosi alla mia altezza.
«La mia palla è finita sopra l'albero» dissi tra le lacrime. Mio nonno guardò la palla e poi me.
«Tesoro, è troppo in alto non riesco a prenderla»
«Ti prego, nonno» lo supplicai ancora tra le lacrime.
«Sono troppo vecchio per arrampicarmi»
«Nonno, so che c'è la fai, ti prego voglio la mia palla» dissi ancora ingenuamente. Lui sospirò e si recò dentro per prendere la scala, quando ritornò la posizionò sul tronco dell'albero cercando un punto in cui potesse rimanere stabile.
Salì sulla scala, ma essendo troppo corta, salì sopra il ramo più alto, quello che probabilmente doveva sembrare il più solido. Mi lanciò la palla e la raccolsi felice, sorridendo abbracciando di nuovo la mia palla.
Poi successe tutto velocemente. Uno scricchiolio di un ramo. L'urlo di mio nonno. E lui steso a terra privo di sensi, con la testa piena di sangue.

Rimasi a fissare il vuoto, mentre da un po' avevo interrotto la telefonata con mia madre.
Non potevo crederci che gli fosse capitato ancora, e sapere che questa volta, probabilmente, non si sarebbe mai più risvegliato, mi mandava in bestia.
Ero arrabbiata con me stessa. Col mondo. E con mio nonno.
Non avrei dovuto pensare a recuperare la mia palla quel dannato giorno di giugno, ma in fondo che ci potevo fare, ero piccolina, avevo solo nove anni, ero troppo ingenua per pensare alle conseguenze. Ero arrabbiata col mondo perché me lo stava portando via da me, senza farmi sentire la sua voce o senza vederlo e abbracciarlo almeno per l'ultima volta. Ed ero, perfino, arrabbiata con lui perché avrebbe dovuto rimanere con me e non andarsene lasciandomi qui da sola in mezzo a tutto sto bordello. Perché adesso più di tutto lo volevo qui al mio fianco, durante il mio percorso di Amici, volevo che mi guardasse alla tv fiero della sua nipotina e io gli avrei dedicato alcune canzoni, salutandolo nella diretta; volevo vederlo emozionato mentre cantavo le canzoni che lui adorava; volevo sentire i suoi consigli, che mi dava sempre, su cosa migliorare; volevo sentirlo insultare i professori quando mi dicevano che non li emozionavo, mandandoli a quel paese come solo lui sapeva fare; volevo averlo al mio fianco.

Una mano si posò sulla mia spalla, facendomi sussultare. Mi girai, verso la figura dietro di me.
«Sara, vieni con noi in centro?» mi domandò Emma circondata da tutto il resto della ciurma.
«No, voglio rimanere qui» risposi rigirandomi, incrociando le braccia e sfregando le mani su di essi. Faceva freddo quella sera, ed io come una demente avevo dimenticato la giacca in camera.
«Dai, Sara ti prego, non puoi rimanere sempre qui» insistette questa volta Carmen.
«Non mi va»
«Ti promettiamo che ritorniamo presto, non vogliamo lasciarti qui da sola...» proseguì Nicole prima che io la fermassi.
«Vi ho detto che voglio rimanere qui» risposi irritata, con le labbra serrate.
I ragazzi non dissero una parola e si diressero verso le loro macchine.

Volevo rimanere da sola, senza nessuno che mi guardasse con quello sguardo pieno di compassione che tanto odiavo, non volevo nessuno tra i piedi.
Avrei preferito di gran lunga rimanere da sola nella mia stanza, sfogandomi con me stessa, dandomi la colpa di tutto come avevo sempre fatto, anche se in alcuni casi io non centrassi nulla. Ma questa volta la gran parte della colpa era davvero la mia, non me lo sarei mai perdonata e sarei rimasta col rimorso a vita, rimuginando sul fatto che, forse, se avessi lasciato la palla dove era finita su quell'albero, mio nonno non sarebbe andato in coma e non avrebbe avuto tutti quei problemi che ora l'avevano ridotto così, facendolo andare nuovamente in coma. Senza possibilità di poterlo salvare.
I miei occhi si riempirono di lacrime e una lacrima mi rigò la guancia.

«Non piangere, non è stata colpa tua. So che ti stai sentendo una merda, dando la colpa a te stessa, ma non risolverai nulla. Ti stai facendo del male da sola, bimba. Sei forte, non ridurti così» mi sussurrò una voce abbastanza familiare all'orecchio, mi asciugai le lacrime.
E vidi passare davanti a me Filippo, rivolgendomi un ultimo sguardo prima di seguire gli altri.
Aveva ragione. Come sempre.

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Dopo aver passato la maggior parte del tempo chiusa in camera mia, maltrattando il mio povero cuscino che ora era zuppo d'acqua e sporco di mascara, decisi di uscire dall'hotel, con gli occhi gonfi e rossi.
Mi diressi verso il tabaccaio più vicino, entrando dentro con una faccia più che sconvolta.
«Un pacco di Marlboro e un accendino» dissi lasciando una banconota da dieci euro sul bancone.
«Mi dispiace, non vendiamo pacchetti di sigarette ai minorenni»
«Sono più che maggiorenne, ho diciannove anni, dammi quelle sigarette» esclamai furente contro l'uomo dietro al bancone, che dopo aver sentito le mie ultime parole prese il pacchetto e l'accendino e me lo porse, lasciandomi poi il resto dei soldi.
Uscì senza salutare, infilandomi il pacchetto e l'accendino nella tasca dei pantaloni.

Non fumavo. Era un vizio che avevo sempre preferito evitare, ma in quel momento ne avevo estremamente bisogno, per offuscare i miei pensieri e staccare la spina per qualche minuto.
Volevo distrarmi, e in quel momento il fumo mi sembrava la scelta più adeguata.
Ritornai in albergo, nascondendo ciò che avevo appena comprato dentro il cassetto del mio comodino. Sdraiandomi nuovamente sul letto.
Non avevo fame quel giorno, perciò non scesi in sala ristoro con gli altri che probabilmente erano ritornati dalla loro passeggiata mattutina.

Ma in realtà non era così, erano rimasti più a lungo del solito e quando furono rientrati erano circa le otto di sera. Prima che le ragazze entrassero nella camera, mi diressi senza farmi notare da nessuno sul terrazzo sulla mia, ormai amata panchina di fronte al fantastico paesaggio di Roma notturna.
Mi sedetti con le gambe contro il petto circondate dalle mie braccia. Presi il pacchetto di sigarette e ne estrassi una portandomela alle labbra, presi l'accendino e mi accessi la sigaretta inspirando il fumo per poi lasciarlo fuoriuscire.
Non ero molto abituata e infatti tossì ripetutamente, ma cessai dopo che mi fui abituata. Mi alzai il cappuccio per evitare di imbrattare i miei capelli puliti con l'odore orribile del fumo.

Finì la prima sigaretta, buttandola oltre la ringhiera.
Ne estrassi un'altra accendendola nuovamente, tirando il fumo all'interno di essa, chiudendo gli occhi.
Dopo la quarta sigaretta la mia mente, ormai oscurata dal fumo, vagava per non so quali strani pensieri. Tossì di nuovo, portandomi una mano alla bocca. Avrei dovuto smetterla con quella schifezza, ma la mia mente ne chiedeva sempre di più, non riuscendo a smettere.
Mi portai per l'ennesima volta la sigaretta alla bocca, socchiudendo gli occhi.
A un certo punto non mi ritrovai più la sigaretta sulle labbra e aprì gli occhi di scatto, girandomi in torno per vedere chi mi l'avesse rubata. Trovai Irama in piedi accanto a me con la mia sigaretta tra le labbra, lo guardai furente rubandogliela e riportandomela in bocca.
Me la riprese.
«Non dovresti fumarla, sei troppo piccola per queste cose» esclamò facendo un tiro per poi lasciare cadere la sigaretta a terra. Guardai il movimento della sigaretta con gli occhi spalancati per poi guardarlo con sguardo omicida.
«Sono abbastanza grande da sapere cosa fare o cosa no» gli risposi riducendo gli occhi a due fessure.
«Io non credo. Quanti anni hai, bimba?» mi domandò.
«Diciannove» gli risposi distogliendo lo sguardo dai suoi occhi penetranti e perfetti.

«Appunto troppo piccola, dovresti pensare ad altro invece che fumare ste schifezze» disse prendendomi il pacchetto che avevo in mano. Cercai di riprendermelo, ma senza buoni risultati, arrendendomi.
«Senti da chi proviene la predica» esclamai ironica. Si sedette accanto a me e mi annusò.
«Dio ma quante ne hai fumate! Sei davvero un'irresponsabile Sara, queste cose ti rovinano la vita. Non ti posso lasciare sola per qualche ora che ti cacci nei guai» mi sgridò come fosse mio padre, anzi peggio.

La testa mi stava scoppiando e mi iniziava a girare, mi portai una mano sulla fronte chiudendo gli occhi.
«Sta zitto, ti prego» lo implorai.
«Dovresti riposare» mi consigliò, sentendo il suo sguardo addosso.
«Non voglio tornare in camera mia ora, voglio rimanere ancora un po' qui» gli risposi, chiudendo gli occhi per pensare e magari anche per riposare o meglio ancora per cercare di calmare quel mal di testa atroce.
Dio, mi sentivo un alito orribile!

«Va bene vorrà dire che rimarrò qui con te» disse prima di prendere delicatamente la mia testa e poggiarla sulla sua spalla per farmi riposare. E magicamente il lancinante dolore alla testa passò dopo poco.

Voglio solo te//Irama//Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora