Capitolo quattordici.

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"La grande, tremenda verità  è questa:
soffrire non serve a nulla."
Cesare Pavese

La parte peggiore forse sono questi momenti.
Quelli in cui posso solo rimuginare sul mio  dolore e sulla sua causa, senza possibilità di fare nulla.
Paralizzata a fissare il mio riflesso, stanca dell'immagine che mi appare davanti.
Odiando colei che giace dietro quello stupido vetro, tentando in tutti i modi da allontanarla da me.
"Quella non sono io!" mi ripeto, mentendo spudoratamente non solo a me stessa, ma anche a quella donna.

Le lacrime non scelgono più, la rabbia è l'unico sentimento che riesce a farsi vivo.
Ma con chi posso prendermela, se non con me stessa?
Dopo un po' fa male, prendersi a pugni da soli.
Ma la rabbia non vuole andare via, portandomi allo sfinimento.
Un passo sempre più vicino al baratro, un passo sempre più vicino alla fine.

Serro gli occhi e mi premo i palmi sulle orecchie, rannicchiata sotto alle coperte mentre tremo come una foglia.
Canticchio piano una sorta di filastrocca, di quelle che si recitano ai bambini per calmarli.
La filastrocca che la mia mamma mi recitava, quando ancora in fasce, non la facevo dormire.
La filastrocca che tutt'ora, dopo 18 anni, riesce a riportarmi alla pace.

Ma uno strano tonfo che proviene dall'esterno  mi riporta sulla terra ferma, facendomi sussultare per la paura.
Che cazzo è stato?

Scatto in piedi, le gambe ancora tremanti e afferro la piccola abat-jour presente sul mio comodino, nel bisogno di avere una qualsiasi cosa da poter usare come arma.
Una figura scura al di là della vetrata mi si presenta davanti, spaventandomi come non mai.
Non può essere Lui.

Apro di scatto la vetrata ed esco fuori al balcone, cercando di apparire più minacciosa possibile.
"Stammi alla larga bastardo!" esclamo quasi lanciandogli la lampada ad occhi serrati, per poi venire fermata poco prima che accada.

"LASCIAMI!" esclamo quando la figura mi blocca completamente contro il suo corpo, dimenandomi e lasciandomi sfuggire un calcio abbastanza forte, che mi libera.
Sono fin troppo stanca per combattere.

"Cazzo Alyiah fai piano! Sono io!" riconosco la voce ed un'imprecazione di "sollevazione" lascia le mie labbra, facendomi bloccare di scatto.
"Hill, che cazzo ci fai tu qua?" poggio l' abat-jour sul pavimento e mi avvicino a vedere se si fosse effettivamente fatto male, per poi constatare che non si tratti di niente quando si avvia verso il mio letto.

"Mi annoiavo ed ero certo tu fossi sveglia, la luce è accesa. " si stende nel mentre, facendomi sbuffare.
"Sono le tre di notte, era necessario venirmi a rompere il cazzo?" mi siedo più lontana possibile da lui.

Finge di pensarci su e poi annuisce, sorridendo in una maniera forse troppo irritante.
"Che facciamo?" mi chiede.

"Io adesso leggo mentre tu alzi il culo dal mio letto e torni a casa!" esclamo infastidita, prendendo il libro dal comodino.
"Mi spieghi come sei salito qui sopra?" mi lamento, guardandolo male.

"Che leggi?" mi ruba il libro dalle mani, irritandomi talmente tanto da ricevere un pugno sul braccio mentre me lo riprendo.
Forse se inizio a non dargli attenzioni andrà via.

"Il grande Gatsby, hai gusto ragazzina." mi dice  una volta guardato il titolo, ma io decido di ignorarlo nonostante io stia sorridendo sotto i baffi.

Pochi minuti dopo, deconcentrata dalle continue domandine che il ragazzo al mio fianco mi pone puramente per infastidirmi, chiudo il libro di scatto, sbuffando.
"Adesso vado al bagno, se quando torno non sarai andato via giuro che sarai la causa per la quale andrò in prigione. Continuerò il lavoro iniziato prima." sbotto, alzandomi di scatto.
"Credici, Sashimi." risponde ridacchiando, ed io sono troppo stanca per mettermi a fare casino per mandarlo via.

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