4. Il Mio Nome Non È Importante

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Nonostante il locale fosse gremito di persone di ogni età, nessuna di esse pareva accorgersi dell'uomo dai capelli neri seduto al tavolo accanto all'ampia vetrata che dava sul centro città.
Era come se i loro occhi scivolassero sulla sua figura di ghiaccio, senza indagarvi per più di un istante.

Era una fortuna la sua, pensò. Il suo sguardo vagava indeciso sulla piazza, sereno, il viso che si rifletteva sul vetro. In quel momento, erano in corso le celebrazioni per una delle tante ricorrenze di cui da tempo si era dimenticata la vera tradizione.

Sullo sfondo, una giovane coppia si allontanava di soppiatto. I due amanti ridevano, con le dita intrecciate e le gambe prive di peso.

Erano belli, come quel luogo nella propria interezza, di cui loro facevano comunque parte.

In tutti quegli anni, gli era mancato terribilmente, come se una parte di sé gli fosse stata strappata via nel momento in cui se ne era allontanato. Non ne era originario, ma tornarvi somigliava al ritrovare se stesso e tutto ciò che vi aveva lasciato.

Certo, le cose erano irrimediabilmente diverse, allora.

Non aveva potuto fare altrimenti: appena aveva scoperto ciò che era accaduto, si era subito messo in viaggio per raggiungere quello che, senza dubbio, riteneva il proprio tesoro.
Non sapeva come si sarebbero risolte le cose, né se lo avrebbero mai effettivamente fatto, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

Non aveva detto a nessuno della sua partenza- non avrebbero capito- ma sapeva che era questione di pochi giorni prima che tutti sapessero. Forse ore.

Non importava che lo trovassero: avrebbe lottato ferocemente pur di proteggerla, anche a costo della vita.

Aveva giurato che sarebbe rimasto al proprio posto e che non avrebbe agito di testa propria, ma erano troppi anni che sottostava- o meglio, fingeva di sottostare- a ciò che gli era stato imposto, privandosi di ogni libertà purché gli garantissero la sua incolumità.

Ma all'improvviso le garanzie ai patti erano saltate e non c'era più stato motivo che lui si mantenesse fuori da una faccenda che lo riguardava a quel modo.

Prese un profondo respiro, incrociando pigramente le braccia al petto.

In fin dei conti, seguire gli ordini non era mai stato nelle sue corde.


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<<Sì>> borbottò Greta, chiudendo lo sportello della fotocopiatrice, <<Sì, torno per cena>>. Sul piccolo schermo rettangolare figuravano il formato dei fogli e la quantità di inchiostro rimanente.

<<Sì, tutto bene>> aggiunse, dopo qualche secondo di pausa, <<Perché?>>.

Inserì due cifre tramite alcuni pulsanti particolarmente restii ad essere pigiati e il familiare rumore di rulli e carta le inondò le orecchie tra le domande insistenti della madre, dall'altro capo del telefono.

<<Certo che ci sto male. Non puoi pretendere che io...>> lasciò la frase in sospeso, quando l'altra la interruppe.

Se ne stava con la schiena appoggiata al muro, il cellulare incastrato tra la spalla e la guancia. Non ricordava di essersi mai sentita tanto provata.

<<Va bene, come vuoi tu. Ora devo andare, ciao>> e buttò giù, terminando bruscamente la chiamata. Erano almeno venti minuti che cercava di rassicurarla che non stesse troppo male. Nessuno come sua madre sapeva quanto bene volesse alla propria migliore amica e il fatto che questa fosse scomparsa aveva destabilizzato anche lei. Aveva voluto parlarne più volte, forse- pensava Greta- per tranquillizzarsi del fatto che fosse ancora lì, a casa, al contrario di Andrea. Era dispersa da due mesi, ormai.

HOSHIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora