20. La Mia Follia

51 2 51
                                    

Non lo capiva. Proprio non lo capiva. Pensava di aver ormai accettato l'abitudine di W di non dare spiegazioni, ma si era dovuta trattenere da prenderlo a calci, mentre la trascinava su per le scale, rischiando di far cadere entrambi.

<<Smettila>> le aveva sussurrato una volta raggiunto il pianerottolo del primo piano, <<O sarò costretto a caricarti sulle spalle>>.

Ogni tentativo di ribattere era stato bloccato sul nascere da certe occhiate truci, che le avevano fatto gelare il sangue nelle vene. Lo aveva seguito per altre due rampe, finché un portone dall'aria arrugginita non aveva sbarrato loro la strada. Una vecchia chiave era già infilata nella toppa, così W si era limitato a farla scattare all'interno della serratura un paio di volte, prima che essa cedesse con un lamento.

Il vento freddo della notte le sconvolse i capelli in una breve folata. W, un passo avanti, le lasciò il polso, che ricadde pigramente contro la coscia. Senza voltarsi, le lanciò uno sguardo da sopra la spalla, indicando l'esterno con un cenno del mento. Le sue spalle le impedivano di vedere più di un ritaglio di cielo scuro.

Gli gettò un'occhiata interrogativa, che lui non colse, già con un piede fuori dalla porta.

<<Vieni?>>.

Incrociò le braccia al petto. <<Perché diamine siamo sul tetto?>>.

<<Io sono sul tetto. Tu no, tecnicamente>>. Si chinò per fermare la porta con un vecchio mattone.

<<E allora perché sei sul tetto?>>.

<<Perché non ci sei tu, piuttosto?>>.

Sbuffò. <<Questa conversazione è stupida e non ho intenzione di starti a sentire un secondo di più>>. Gli diede le spalle, ma le braccia forti di W la agguantarono per la vita, sollevandola di peso. Aprì la bocca per urlare, ma il suo grido venne soffocato da una folata di vento, aggressivo. La rimise a terra e la gomma delle suole stridette contro il cemento usurato.

Si allontanò di scatto, con gli occhi spalancati. <<Non ce la fai a tenere le mani a posto?>>.

Lui sollevò gli occhi al cielo. <<Volevo solo parlarti>>.

<<In cucina non andava bene?>>.

<<No>> sbottò, coprendosi la bocca con una mano. Se si trattava di uno sbadiglio era campione di educazione, ma quando rispettare la volontà altrui pareva non capirne granché. <<Volevo vedere la notte>>.

Confusa, Greta sollevò lo sguardo: il cielo che li sovrastava era nero catrame. Lungo il profilo della città, si schiariva leggermente, come ferito dalla luce artificiale dei lampioni e delle case.

Ma era sufficiente alzare il mento per accorgersi di un infinito numero di puntini luminosi, simili a efelidi sulla schiena abbronzata di un bambino. Trapuntavano l'etere come spilli di una sarta sbadata, che li aveva seminati con distrazione sul velluto di un abito elegante. La luna ricambiò il suo sguardo, silenziosa come sempre. Era quasi del tutto piena, più bianca che grigia, nell'oscurità.

Greta cercò W con gli occhi: anche lui la guardava a testa in su, le spalle basse, del tutto sottomesso alla bellezza antica che emanava. Rifletteva su di lui una luce pallida e temprata, che proveniva dal sole. Se però esso non si lasciava mai contemplare, accecando momentaneamente (o per sempre) chiunque provasse, la luna si arrendeva agli occhi di chiunque fosse disposto a levare lo sguardo. Timida, si concedeva sempre, permetteva che i poeti la proclamassero la loro musa, che i fotografi le rubassero un istante della sua grazia immemore, solenne perché sa di non dover far nulla per attirare l'attenzione.

HOSHIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora