27. Nemmeno La Morte

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Quel giorno, a Torino pioveva.

Fitte gocce di pioggia rigavano la vetrata dello studio di Michele, che nei suoi trent'anni suonati si lasciava ancora distrarre dalle gare immaginarie che si compivano tra quei sottili rivoli mentre attraversavano la superficie trasparente della finestra. Quando era bambino- e i suoi genitori ancora gli allacciavano la cintura attorno al seggiolone- era solito incantarsi per ore intere, con il naso incollato al finestrino e le dita paffute premute contro il vetro, come per afferrare almeno una di quelle goccioline che si inseguivano rapide.

Quella volta, però, si limitò ad allontanare la poltrona dalla scrivania, abbandonandosi contro lo schienale con le mani dietro la nuca. Sospirò profondamente, domandandosi come Elena lo avesse convinto ad andare a lavoro in moto, quella mattina. Il meteo aveva parlato chiaramente: alte probabilità di pioggia nel primo pomeriggio.

Ma Elena era Elena: nessuno come lei era in grado di fargli fare tutto ciò che un momento prima aveva giurato di non volere.

Diede le spalle alla vetrata, cercandola con lo sguardo: era a un paio di scrivanie dalla sua, con i capelli rossi raccolti in una coda di cavallo e gli occhiali che erano scivolati fino alla punta del naso. Era così che gli era sempre piaciuta: struccata, concentrata sul lavoro, del tutto inconsapevole della propria folgorante bellezza.

Era stata una sorpresa quando gli aveva chiesto di uscire, ormai quattro anni prima. Ricordava ancora l'espressione di pura vittoria che le aveva preso il viso quando, imbarazzato, aveva accettato.

<<Fai una pausa, Mick?>> domandò una voce fuoricampo. Si riscosse con un sobbalzo, roteando il busto verso chi aveva parlato.

Oh, no. Tutti, ma non Anderson, l'americano. Quello non lo sopportava proprio. Era un uomo sulla quarantina, di poco più basso di lui, con gli occhi azzurri e i capelli brizzolati.

<<Mi si erano incrociati gli occhi>> borbottò Michele, riportando lo sguardo sullo schermo del pc di ultima generazione che stazionava acceso sulla scrivania da diverse ore. Mancavano ancora due ore alla fine del turno e, se non voleva portare il lavoro a casa, bisognava che si desse una mossa.

Anderson non si mosse di un passo, continuando a scrutarlo con quell'aria saccente che gli agenti statunitensi ostentano, la maggior parte delle volte senza merito.

Il punto, però, era che Anderson i meriti li aveva tutti- e non perdeva occasione di ricordarlo a chiunque incontrasse.

<<Ti capisco, amico. Ti ho mai parlato di quella volta in cui ho violato il programma di sicurezza iraniano? Quello sì che era da farteli cadere, gli occhi>>.

Michele trattenne un sospiro, sollevando lo sguardo stanco su quell'inopportuno visitatore.

<<Posso fare qualcosa per te?>> domandò, secco. Il sorriso sul volto di Anderson non si spense affatto.

<<Il capo ti vuole nel suo ufficio>> annunciò. <<Pare sia successo qualcosa di grave>>.

Un lampo attraversò il viso di Michele, che immediatamente scattò in piedi e se lo lasciò alle spalle, borbottando un'imprecazione. Non gli importava che Anderson lo sentisse, anzi, tanto di guadagnato. Come era possibile che un incompetente come lui fosse uno degli agenti più conosciuti di tutti i servizi segreti? Non aveva un briciolo di serietà, trasformava tutto quanto in un gioco.

Perché non gli aveva detto subito del signor Rossi? Non era il genere di persona a cui piaceva aspettare.

Entrò in ascensore e il suo sguardo furioso fece sobbalzare una delle segretarie, che fece cadere il malloppo di fogli che reggeva tra le mani.

HOSHIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora