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Ricordo ancora il giorno in cui divenni consapevole del mio destino. Avevo solo diciott'anni e, nonostante mi ritenessi ancora un bambino, venni chiamato alle armi. Non so come credessero di trovare nell'animo di un ragazzino capace solo di tracciare righe su un foglio di carta la forza di fare del male a un altro essere umano.

Il solo pensiero era terrificante.

Come scordare il pianto disperato di mia madre, e mio padre che l'abbracciava senza dire una sola parola. Eppure quel silenzio parlava più di mille frasi, come quando mi accompagnarono al centro militare laddove, dopo un breve addestramento, sarei partito per chissà dove. Prima di voltarmi per l'ultima volta, li guardai e promisi che sarei tornato quando quell'orrore avesse deciso di cessare e per nessun motivo al mondo avrei mai sparato a un mio simile.

Quanto mi sbagliavo.

Com'era prevedibile, tutti i miei coetanei e amici di quartiere vennero reclutati e tra tutti, Ferenc mi stupì. Non era afflitto come tutti noi ma, al contrario sembrava entusiasta, pronto a difendere la sua Nazione pur non avendo la minima idea di quale senso avesse quella carneficina.

Fortunatamente dopo l'addestramento non fummo divisi e partimmo insieme verso la prima e dolorosa battaglia. Ferenc, da buon amico, cercò di rassicurarmi, sostenendo che il nostro viaggio non fosse inutile e che avremmo fatto qualcosa di buono; saremmo diventati eroi nazionali. Credetemi, neanche per un secondo pensai che avesse ragione, temendo invece che il nostro furgone stesse andando incontro a una tragedia sicura.

"Ti proteggerò io." mi assicurò, rifilandomi una forte pacca sulle spalle. "L'ho sempre fatto, no? Vedrai, torneremo a casa presto."

"So che lo farai." mi limitai a replicare con un falso sorriso, bardato in testa con un caschetto scomodo e ingombrante.

Purtroppo, le cose purtroppo andarono diversamente. Ferenc cadde dopo pochi mesi e io non potei fare nulla per salvarlo. L'orrore delle guerra aveva inghiottito molte persone e io, in quella battaglia, persi il mio migliore amico.

Quel ragazzo robusto e sorridente bramato da tutte le ragazzine convinto di combattere per un ideale. In realtà la nostra splendida Ungheria, nel 1940, aveva deciso di allearsi con le potenze dell'Asse. L'intento principale era evitare qualsivoglia coinvolgimento militare, ma fu costretta ad assicurare forze militari per le battaglie.

E perché tutto questo?

Dopo la disastrosa prima guerra mondiale, il glorioso e potentissimo impero austro-ungarico era andato incontro a una devastante dissoluzione. Insomma, lo smacco di un impero millenario sconfitto e ridotto a una repubblica che non perse solo notevoli territori, ma addirittura il fruttuoso accesso al mar Mediterraneo. Insomma, la colpa si attribuiva al Trattato di Triaon, responsabile di aver distrutto l'Ungheria che, secondo molti, era lo Stato che dalla guerra mondiale ne era uscito più ridimensionato.

Tutto qui? Neanche per idea.

L'ideale della Grande Ungheria non era morto, ma viveva ancora in molti patrioti, decisi a tutto pur di rimediare a quel trattato che li aveva completamente distrutti. Inizialmente neutrale, divenne in sostanza la quarta potenza dell'Asse.

Ma ora dove mi trovavo?

Ero solo. Il campo di battaglia era lontano e il mio cammino tra le macerie sembrava impervio, in un luogo che seppelliva i corpi delle vittime di Debrecen, ormai diventata una città fantasma. Chi si era salvato, se davvero c'erano superstiti, se ne stava ben nascosto negli unici edifici rimasti in piedi, all'erta e con il timore dello scoppio di qualche bomba o di spari di carri armati. 

Non sapevo se da qualche parte nella città si stesse nuovamente combattendo, ma non incontrai nessuno. Né alleati, né nemici. In realtà, non mi importava molto. Ero stanco e solo il mio residuo istinto di sopravvivenza mi stava guidando, ingiungendomi di guardare avanti senza più voltarmi.

Quando oramai mancavano poche centinaia di metri alla fine della Città, mi trovai di fianco a un negozio di vestiti, con le vetrine completamente distrutte. Con molta cautela mi ci addentrai, notando come gran parte del vestiario fosse ancora presente nell'edificio. A quel punto riflettei; con i miei abiti da soldato rischiavo di essere ucciso nel caso avessi incontrato i sovietici e quindi feci la cosa più sensata. 

Certo, il solo pensiero di dedicarmi ad atti di sciacallaggio era orribile, ma non avevo altra scelta. Mi spogliai, poi scelsi i capi, optando per un paio di pantaloni grigi, una camicia bianca e una giacchetta marrone e sostituii all'elmetto una coppola verde. Poi presi dei vestiti di ricambio, una coperta molto pesante e misi tutto dentro una sacca che appoggiai sulle spalle. Tenni con me il fucile, che poteva sempre tornare utile. Poi, facendomi coraggio abbandonai finalmente Debrecen.

Volevo tornare a casa.

Sullo scalino nascosto nella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora