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Dopo questa lunga introduzione, credo sia il caso di presentare colui che ha rimarcato questi dolorosi ricordi. Mi chiamo Tamàs e sono nato in un sobborgo di Budapest il 15 settembre del 1922.

Secondo quanto mi raccontarono, venni al mondo un pomeriggio funestato da un forte temporale e al primo vagito uno spiraglio di sole fece capolino tra le nuvole. Ancora oggi non so se ciò corrispondesse al vero o se si trattasse di una favola nata dalla felicità di una madre, ma adorai sin da subito quell'aneddoto e in men che non si dica lo feci mio.

Da qualche anno era terminato il primo conflitto mondiale, prima del quale i miei genitori avevano comprato una casa in un quartiere isolato ma si erano sposati senza potersi godersi il momento, in quanto mio padre era stato richiamato alle armi. Mia madre aveva cercato di essere forte e, nonostante la paura che l'amore della sua vita non tornasse mai più, aveva giurato di attenderlo; e il giorno in cui mio padre fece ritorno a casa, pianse come non aveva mai fatto prima.

Qualche anno dopo nacqui io.

A questo punto mi sembra doveroso parlare un poco di loro, della loro vita prima che nascessi, di come si sono conosciuti. Mio padre si chiamava Endre, mentre il nome di mia madre era Margit. Papà iniziò i propri passi come panettiere, nella bottega aperta da mio nonno anni addietro e fu proprio lui a rilevare l'attività in giovane età, dimostrando di possedere le carte in regole per proseguire con successo l'attività di famiglia.

Mia madre invece era nata con la musica nel cuore, tanto da imparare a suonare il pianoforte con una grazia incredibile sin da piccola. E proprio quello strumento melodioso li aveva fatti incontrare. Mamma, notata da importanti organizzatori di concerti, aveva iniziato a esibirsi pubblicamente e papà, stregato dal suo talento e dalla sua sottile bellezza, aveva deciso di farsi avanti, seppur con timidezza.

Con la sua infinita pazienza mamma aveva pure provato a insegnarmi a suonare, ma mi dimostrai un completo incapace e lei, con dolcezza, si limitava a sorridermi. La musica mi piaceva un sacco, ma mi limitavo ad ascoltarla, mentre mi dedicavo anima e corpo all'arte per quale mi sentivo portato davvero.

So che può sembrare presuntuoso da parte mia, ma credo di essere stato un buon figlio, obbediente e rispettoso. Non ho mai capito né chiesi per quale motivo non avessero voluto altri figli. Il giorno in cui ruppi un vaso a cui mia madre teneva parecchio confessai subito e lei si intenerì sostenendo che fossi molto buono, ma non voglio dire con questo di essere perfetto e senza difetti caratteriali.

Forse semplicemente erano felici di essersi ritrovati dopo la guerra e io, frutto del loro amore, ero ciò che avevano desiderato e non chiedevano altro. Li adoravo alla follia e mi ritenevo fortunato ad avere quelli che consideravo i migliori genitori del mondo, capaci di appoggiare ogni mia scelta, anche quella più avventata.

Difatti, quando avevo comunicato loro di non avere intenzione di rilevare a mia volta l'attività di famiglia, non si arrabbiarono affatto. Mi dissero che se non era la mia aspirazione diventare proprietario della panetteria non ero obbligato, ma dovevo seguire i miei sogni.

Come vi ho accennato, abitavamo in periferia, lontano dal centro in quanto i miei genitori desideravano vivere in tranquillità, lontani dal caos. Avevano acquistato un appartamento al primo piano di una graziosa palazzina e potevo comprendere la loro scelta. La strada principale era quasi sempre sgombra, cosicché i ragazzi del quartiere potevano utilizzarla per lunghe partite a calcio, mentre le bambine se ne stavano sotto un albero sedute sull'erba a parlare; probabilmente di noi.

Per fortuna ero molto socievole e non ebbi mai problemi con i miei coetanei. L'amicizia più bella la strinsi però con Ferenc. Eravamo molto diversi, sia caratterialmente che fisicamente; io dai capelli castani, altezza normale, magrolino - tutto sommato mi ritenevo un ragazzo abbastanza piacevole - ma Ferenc era tutta un'altra cosa, con i capelli biondi e occhi verde acqua, un fisico già possente per la sua età e altezza sopra la media, dotato di un carattere deciso e forte (a volte un po' aggressivo), al contrario di me, tranquillo e pacato.

Non ricordo in quale occasione divenimmo inseparabili, ma non servirono molti incontri per rafforzare la nostra amicizia e se litigammo, si trattò di episodi non degni di nota. Una volta a dire il vero rischiammo di venire alle mani – e certamente avrei avuto la peggio – per una ragazza, ma quando capimmo che stava solo giocando con noi tornammo più amici di prima.

E quando mi ritrovavo in casa da solo, erano ben altre le passioni a cui amavo dedicarmi. Come già anticipato, amavo la pittura alla follia e, a costo di sembrare ancora arrogante, ero sicuro di possedere un buon talento e questa tesi non è stata avvalorata solo dal mio ego ma dai miei genitori, parenti o amici ricevevo sempre consensi positivi. Non so se fossero complimenti dettati dalla volontà di non offendermi o se fossero davvero sentiti, ma il motivo per cui dipingevo non era la brama di successo, quanto un divertimento che non cessava nemmeno dopo ore tra tavolozze e pennelli.

Dato che l'attività dei miei genitori procedeva piuttosto bene, decisero di mandarmi a prendere lezioni di pittura da un'artista che anni prima era stato molto conosciuto, tale Attila Kovàcs. Nonostante avesse l'aria di un vecchio alcolizzato burbero, in poco tempo imparai a conoscerlo e rimasi affascinato dal suo smisurato talento, al punto che ridimensionai le mie capacità e diedi tutto mé stesso per apprendere al meglio i suoi segreti. Andare a lezione da Attila era divenuto il mio rituale settimanale e per ripagare i miei genitori dello splendido regalo, mi prodigai per aiutarli nella panetteria; mi sembrava doveroso. Purtroppo dopo soli due anni il buon Attila, colto da un infarto, si spense e fu allora che dovetti iniziare a muovermi con le mie gambe.

Ma non feci in tempo.

Sullo scalino nascosto nella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora