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Poi la breve vita del mio ricordo finì. Era stato scelto proprio lui

Se così fosse stato, avrei perlomeno sperato che il dolore riprovato svanisse e invece, a quanto pare, la strada sarebbe stata ancora lunga, fino a ritrovarmi dietro le sbarre. Già, letteralmente. Mi trovavo in una prigione, in una di quelle in cui finisci quando vieni catturato come prigioniero di guerra. Sentivo e cercavo di scacciare le urla di dolore degli altri detenuti, sottoposti a chissà quale tortura psicologica o fisica. 

Me ne stavo seduto sulla mia branda, ossia un materasso sottile su una lastra di ferro, scomodo e lontano dal sottile confine ortopedico. Fuori dalla prigione scorreva un corridoio lungo e buio, che sembrava messo lì apposta per convincerti che di lì non saresti mai fuggito. Guardai le mie braccia, piene di escoriazioni e toccandomi il volto provai le stesse sensazioni. Le bruciature di sigarette, i tagli e i graffi completavano il tutto. 

Forse la morte di Ferenc non era il ricordo più doloroso? Avevo quasi rimosso quel seppur breve periodo della mia vita, dopo o prima di Stalingrado? Non lo ricordavo, ma rimembrai tutte le torture, le umiliazioni, in un lasso di tempo apparentemente infinito. Non capivo per quale motivo i Giudici mi stessero estrapolando quei ricordi, quasi sepolti in angoli remoti della mente.

Certo, le cicatrici sarebbero rimaste sempre lì, nella mente e nel corpo, a causa del dolore fisico e mentale che avevo provato ogni giorno. Alla stessa ora, Lui sarebbe arrivato. Si sarebbe divertito, mi avrebbe fatto del male e io non avrei potuto difendermi in alcun modo.

E alla fine, puntualmente arrivò. Aprì la porta della cella, accompagnato come sempre da due guardie, costrette ad assistere allo spettacolo, volenti o nolenti. Non conoscevo il nome del mio aguzzino o semplicemente non volevo ricordarlo. Aveva una lunga divisa, simile a quella che indossavano i gerarchi nazisti, ma non poteva essere un tedesco, dato che almeno formalmente erano alleati dell'Ungheria. 

Poi, quella divisa se la toglieva, per essere comodo nel compiere le sue atrocità. Gli occhi di ghiaccio, il volto glabro. Non parlava quasi mai, per cui dalle poche parole che pronunciava non riuscivo bene a capire a quale nazionalità appartenesse. Slavo? Sovietico? Poco importava, perché dal momento in cui prendeva i suoi strumenti di tortura, la questione sulla nazionalità perdeva significato. 

Appoggiò quegli oggetti sul comodino. Non li usava per estorcermi informazioni sui miei compagni o quant'altro. Lo faceva per puro sadismo, perché gli piaceva, lo faceva eccitare. Mi guardò, come faceva sempre e io lo guardai a mia volta, senza mai abbassare lo sguardo. Forse, se l'avessi abbassato, avrebbe avuto pietà mi dicevo, ma ogni giorno arrivava sempre al limite. Arrivava quasi a uccidermi. E, dopo quelle sofferenza, quasi speravo lo facesse. Ma lui non lo avrebbe fatto, mi avrebbe infatti tenuto in vita fino a quando non si fosse stufato di quel macabro gioco. 

Quel sorriso sadico mi faceva paura e lui lo sapeva. Non riuscivo a parlare, ma piansi, per quanto non avessi più lacrime.

"Ti prego..." sibilai sottovoce, quasi avessi le corde vocali recise. Chissà quante volte avevo implorato pietà e lui l'aveva negata.

Un forte sparo interruppe tutto. Poi un altro colpo allertò il mio aguzzino, il quale si voltò a parlare con le guardie, forse chiedendo loro cosa stesse succedendo; domanda che mi posi io stesso. Udii poi un vociare confuso in fondo al corridoio e man mano che le voci si avvicinavano riuscii a comprenderne il significato. Erano ungheresi! Giunsero dal fondo del corridoio e corsero verso di noi, aprendo celle e sparando alle guardie. Come fossero entrati era un mistero e, in superiorità numerica o meno, avevano sorpreso i carcerieri e anche il mio, il quale ingiunse alle guardie di sparare, ma queste vennero freddate puntualmente con una raffica di colpi. 

Poi entrarono nella cella e colpirono il mio aguzzino con un colpo di manico di fucile al volto, facendolo stramazzare al suolo. Dopodiché gli puntarono la canna di fucile al volto e, prima che potesse reagire, gli fecero saltare la testa. Anche se una parte di me se ne vergognava, non potei che provare godimento nella sua morte, sperando che soffrisse almeno la metà di ciò che avevo sofferto io. Poi i militari vennero verso di me e, vedendomi in quelle condizioni, vestito di stracci, pieno di escoriazioni e rasato a zero, rabbrividirono.

"E' conciato male."  disse uno di loro. "Portiamolo via."

Con il tempo quell'episodio mi avrebbe ricordato il "Pozzo e il Pendolo" di Poe, dove il protagonista subiva torture originali e terribili da parte dell'inquisizione spagnola. Ora, io non ero un eretico, ma un ragazzo che non riusciva nemmeno a fare un passo, per cui mi trascinarono fuori da quell'inferno che a lungo avevo dimenticato. Perché avevo dimenticato?

Ma non era ancora finita. Chiunque mi stesse giudicando mi riportò a casa, dove avevo passato tutta la mia infanzia. Se gli altri ricordi potevano essere dolorosi, questo lo era per un altro motivo, uno di quelli che ti distrugge dentro. Ero in piedi sul marciapiede e davanti a me c'era il finora unico amore che avessi mai avuto. Ve ne avevo già parlato, ricordate?

Quando chiamarono per la guerra dovetti annunciarglielo. Erano pochi mesi che eravamo insieme e, nonostante sapessi che i suoi sentimenti per me non raggiungessero nemmeno la metà di quelli che provavo per lei, accettavo quelle briciole di affetto che mi dava, accontentandomi. Qui sono io stesso a biasimarmi. Comunque, le avevo chiesto di vedermi di persona.

"Domani partirò per la guerra." le dissi.

"Lo so." si limitò a ribattere, senza alcuna enfasi.

"Mi aspetterai?".

La mia domanda non ebbe alcuna risposta. Lei non disse nulla, limitandosi a un freddo abbraccio, che non voleva dire nulla. Poi se ne andò senza voltarmi, quasi dando la colpa a me per lo scoppio della guerra o forse, come avrei scoperto crescendo, semplicemente non gliene importava nulla. Non mi avrebbe mai aspettato e perché avrebbe dovuto farlo? Avrebbe atteso la fine della guerra, si sarebbe innamorata di qualcun altro, si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei figli.

Questo pensai, guardandola andarsene con il sole che si spegneva tra le nuvole e provai un dolore immenso. Piansi. Già il pianto. Era questo il denominatore comune della dicitura "ricordo doloroso"? Il pianto?

Basta. Non ce la faccio più.

Tutto quel dolore era per me. Ero solo un ragazzo, un essere umano, non ero così forte come Anita pensava. Provai a comunicare con i Giudici, i quali si divertivano a lasciarmi in quel limbo di oscurità prima di scaraventarmi in un altro terribile ricordo.

"Basta torturarmi! Avete avuto i vostri ricordi!" gridai nel buio. "Lasciatemi stare!".

In tutta risposta mi riportarono a Budapest, non vicino alla mia casa natale, ma nel cuore della città, laddove v'era l'imbrunire e un palchetto con un fottio di gente accalcata attorno a un uomo con in mano una lunga lista. Come potevo non ricordare? Stava leggendo i nomi delle vittime della guerra, civili o militari che fossero e sapevo per quale motivo mi trovassi li e cosa stava per dire quell'uomo dalla voce forte e decisa.

"Portatemi via da qui, vi prego." supplicai con le lacrime agli occhi. "Non ce la faccio."

Invece dovetti restare sino alla fine, impossibilitato a scappare. Dovetti sentire ancora i nomi dei miei genitori e fui costretto stupidamente a credere ancora che non sarebbero stati citati. Eppure non potevo cambiare il passato, come mi stavano facendo intuire i Giudici, i quali mi catapultarono in un altro doloroso scenario.

Questa volta mi trovavo nell'Ospedale vicino alla mia ultima abitazione, nella corsia del reparto riservato ai malati terminali ma non ero solo. C'era Anita con me e ciò era avvenuto non molto tempo prima, con un uomo con pochi minuti di vita in una stanza non troppo lontana da noi. I medici ci avevano consigliato di stargli vicino fino all'ultimo. Ci aveva voluto bene, ci aveva accolti come figli e dovetti rivivere per la seconda volta in pochi mesi quella straziante scena. Entrammo nella stanza di Sàndor, il quale mi fece avvicinare al letto.

"Prenditi cura di lei."  mi fece promettere e io, per la seconda volta, promisi. E ancora una volta, il dolore fu forte. Ma forse era l'ultimo. Doveva essere l'ultimo.

O mi aspettava altro?

Sullo scalino nascosto nella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora