Il mio periodo di prova proseguiva, ma Sàndor non mi indicò un inizio e una fine, tanto che dopo alcune settimane, presuntuosamente pensai che ormai il lavoro fosse mio. Difatti, non molto tempo dopo mi diede dei compiti precisi da svolgere solo, senza la sua supervisione, sostenendo che potessi cavarmela da solo.
Però a volte smetteva di lavorare per restare con le mani sui fianchi a osservarmi e la cosa mi rendeva irrequieto, temendo di fare pasticci e ricevere una strigliata. Ciò non accadde, in quanto era molto pacato e paziente; non potevo aspettarmi altro da una persona tanto esperta nel suo mestiere da avere una clientela tutto sommato numerosa e affezionata.
Nonostante sembrasse burbero e poco socievole, mi mostrò che sapeva farci con le persone, molto più di quanto fossi capace io. In ciò mi ricordava mio padre, anche lui amabile e cordiale. A volte, mentre preparavamo gli impasti, mi piaceva immaginare di avere anche lui al mio fianco, ma il sogno svaniva nel momento in cui ricordavo che non c'era più.
Oltre a me e Sàndor, ogni tanto appariva un curioso aiutante, poco presente e sfuggevole. Era un tizio di circa quarant'anni, un po' cicciottello e con il sorriso sempre stampato sul volto, con l'abitudine di venire in bottega, prendere il pane e andarsene. Non sapevo nemmeno il suo nome, in quanto si limitava a entrare, prendere le ceste e salutare. Quindi si poteva dire che fossimo solo io e il signor Sàndor il motore della panetteria.
Inoltre, la sera uscivo dalla mia stanza e gli davo una mano a pulire, nonostante il mio turno di lavoro fosse già finito; dato che ero suo ospite, mi sembrava doveroso. A volte la sera mangiavamo insieme e con il tempo gli inviti a casa sua aumentarono, segno che si stava sciogliendo, ponendo le basi per la creazione di buon rapporto tra noi due. Inoltre, come aveva promesso, non mi fece alcuna pressione per trovarmi un altro alloggio.
Poi, una fredda sera invernale, accadde qualcosa che non mi sarei mai aspettato dal riservato signor Sàndor, il quale si confidò con me. Per qualche istante pensai che avesse letto nella mia mente, forse aiutato dal fumo della sua pipa che pareva avere qualcosa di magico. Fantasie a parte, iniziò a parlare dal nulla, senza che io gli chiedessi alcunché.
"Una volta avevo una famiglia, ma ora non c'è più."
Abbassai lo sguardo, costernato e imbarazzato. "Mi dispiace molto."
"Ho combattuto durante la prima guerra mondiale." proseguì, seguitando a guardare di fronte a sé. "Ma non è servito a nulla, se non per vedere mia moglie e i miei figli morire tragicamente e senza ragione."
"E' terribile."
"Un po' mi rivedo in te, sai Tàmas? Dopo la guerra ho dovuto rimboccarmi le mani, reagire, come stai facendo magnificamente."
"Non hai mai pensato di rifarti una famiglia?" chiesi io, forse sfacciatamente, ma lui sorrise.
"Avevo paura."
"Di perderli ancora."
"Già. Da vigliacchi, non trovi?".
"Se tu sei vigliacco, io lo sono molto più di te. Hai fatto una scelta difficile, ma non significa che tu abbia sbagliato."
"In realtà è stato un errore. E ti do un consiglio, Tàmas." disse, guardandomi negli occhi. "Non fare come me, non restare solo tutta la vita. Crea la tua famiglia."
Non disse più una parola e saggiamente lo imitai, lasciandolo inspirare il suo fumo con lo sguardo perso nel vuoto a riflettere sulla sua vita, all'uomo che avrebbe voluto essere. Per la prima volta dal nostro primo incontro capii che covava una grande tristezza e la cosa mi causò grande dispiacere. Però da quel giorno qualcosa cambiò nel nostro finora riservato rapporto e potei dire che tra noi nacque una bella amicizia.
Un giorno, mentre passeggiavo per il centro di Budapest, mi imbattei in un luogo che avevo scordato e che mai avrei pensato di rivedere.
Quelle scale.
Rimasi fermo sulla piazza, a guardare inebetito quell'edificio che mi attraeva a sé con una forza inimmaginabile. Era la seconda volta che mi succedeva. Mi avvicinai nuovamente, senza riuscire a controllare la mia volontà che mi ingiungeva di tornare indietro. Arrivato all'ingresso, appoggiai le mani alla parete e diedi un'occhiata alla scalinata, avvolta dalla penombra delle mura che l'avvolgevano. Un voce sconosciuta mi ingiungeva di salire, ma non assecondai questa follia e corsi via più veloce che potevo, quasi spaventato da ciò che avrei trovato là in cima. Lo so sembrava assurdo, ma presto avrei scoperto che avevo ragione.
Qualcosa di strano animava quelle scale.
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Sullo scalino nascosto nella notte
FantasyIl soldato Tàmas, di ritorno dalla guerra, si imbatte nella giovane Anita, la quale si nasconde ogni notte su una scalinata di una casa apparentemente abbandonata. Tàmas decide di prendersi cura di lei, fino al momento in cui inizia a rendersi cont...