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E fu così che venni trascinato in un abisso che sembrava non avere fine.

E poi fu il nulla.

Non l'acqua limpida, non Anita. Solo l'oscurità più totale.  Mi resi conto di essere solo e di avere una paura folle. Forse iniziavo a pentirmi di aver deciso di intraprendere quel viaggio, le cui premesse non erano delle migliori. Ma sapevo che con il senno di poi non avrei mai potuto lasciare Anita in balia del suo destino.

Ma ora mi attendeva l'ignoto. Mi attendevano i Giudici.

Certo, Anita mi aveva assicurato che non ci fosse nulla da temere, ma non sapevo se si si stesse riferendo al mio "annegamento" o all'incontro con i Giudici. Il pensiero di non essere "degno" mi distruggeva. Poi, davanti ai miei occhi annebbiati dall'acqua, iniziò a crearsi l'immagine di ciò che appariva un paesaggio, un luogo. Alcuni colori trovarono così una propria definizione e, man mano che il quadro si completava, intuii dove mi trovassi.

Una parte di me - spirituale o corporale che fosse - si trovava nel mezzo di una fitta boscaglia. Indossavo la tuta da soldato e imbracciavo un grosso fucile, che feci cadere a terra come se fosse così ardente da risultare impossibile da stringere. 

"Non un'altra volta." dissi a bassa voce. "Non ancora."

Sugli alberi e a coprire il terreno si stagliavano qua e là mucchietti di neve, mentre il freddo pungente scalfiva le deboli protezioni delle nostre dannate divise. E, in quel luogo, riuscii pure a ricordare non solo il dove ma anche il quando; mi trovavo a Stalingrado, nel cuore dell'Unione Sovietica, verso la fine di una delle più gravi disfatte delle potenze dell'Asse. 

Doveva essere pressapoco l'inizio del 1943 e l'inverno era stato freddissimo, come poteva esserlo quello di uno Stato gelido come l'URSS, contro il quale la sconfitta poteva essere già annunciata. Ma ai potenti non interessava nulla, talmente concentrati sulla possibilità di acquisire il controllo della regione, un'importante centro economico. Ricordo che all'epoca già meditavo sulla possibilità di disertare. Da quanto tempo mi trovavo lì? Un mese? Mesi? Chi se lo ricordava. Mi pareva di trovarmi in mezzo agli alberi da un eternità e ogni giorno ringraziavo il Cielo per essere ancora vivo.

Proiettili volavano da ogni direzione e io, in mezzo a tedeschi, rumeni, italiani e ungheresi, tentavo una strenua difesa. Eravamo sotto attacco, sotto una coltre di fumo e l'eventualità di un attacco aereo che avrebbe posto fine alle velleità non era così impossibile. Ma c'era qualcuno vicino a me, non ero solo.

Ferenc. Il mio migliore amico.

La mia roccia. Dalla nostra partenza per il fronte mi aveva salvato la vita più volte. Si, era lui il motivo per cui avevo deciso di non disertare, nonostante fossi stato più volte sul punto di farlo. E non solo per ricambiare il favore, perché un'amicizia è un'amicizia a prescindere da quello che ognuno fa per l'altro; ci sei e basta. Non potevo semplicemente andarmene e lasciarlo solo, anche se ero sicuro che se la sarebbe cavata pure senza di me.

Almeno così speravo.

"Ci hanno decimati!" gridò verso la mia posizione, come avrebbe fatto un attore di film di guerra che avrei visto di li a qualche decina di anni. In una smania di sentimentalismo mi immaginai che alcuni personaggi si fossero ispirati proprio a lui. "Non ce la faremo!".

Il rumore degli spari copriva in parte la sua voce e temevo di lì a poco i timpani mi sarebbero esplosi – alla fine della guerra iniziavo in a percepire qualche problema all'udito – ma io non sapevo cosa rispondere, intrappolato nella terribile concretezza di quel ricordo amaro. Ferenc si trovava con la schiena rivolta al tronco di un albero crivellato dai colpi; alla fine di quel giro raffiche nemiche si affacciò e rispose con una rabbiosa scarica di proiettili. Non si era mai arreso e non l'avrebbe mai fatto.

"Che stai facendo, Tàmas?!" sbraitò Ferenc vedendomi immobile. Corsi verso di lui, sperando che il tronco fosse sufficientemente grande da coprirci entrambi.

"Non lo so!" strillai, confuso. Fece spallucce e riprese a sparare come un forsennato. Nel frattempo i nostri commilitoni cadevano uno dopo l'altro sotto i colpi precisi e potenti dei sovietici. Saremmo tutti morti, mi dicevo, ma io sarei sopravvissuto. Almeno, così ricordavo.

Avrei dovuto sparare, dargli man forte, ma non ci riuscivo, proprio come avevo fatto allora credo, ma stavolta era diverso. Che fosse andata davvero così non era certo. Che paradosso, vivere un ricordo e non ricordare. Per quale motivo stavamo combattendo? Ferenc era davvero convinto che avremmo dato una mano al nostro paese, per via di quell'Irredentismo Ungherese di cui tanto si era parlato ma a cui io non avevo mai dato peso. Amavo il mio paese per quello che era e non per quello che era stato. Ferenc invece gridava e sparava, sparava e gridava.

Poi, arrivò il proiettile del sovietico. E venne colpito.

"Ferenc!" urlai, soccorrendolo con rapidità. Dovetti rivivere le sue urla di dolore e la caduta nella neve, soffice e terribile al tempo stesso. Aveva un forte squarcio nel petto ed era un miracolo che fosse ancora vivo. Da terra, Ferenc mi afferrò forte per il bavero, stringendo i denti.

"Salvati..." mi sibilò sottovoce, quasi avesse paura che qualcuno sentisse. Ma erano quasi tutti morti. "Torna a casa."

"Non ti lascio qui, amico!".

Scosse la testa, sorridendo. "Lo sai che morirò. E tu non può farci nulla."

E tu non puoi farci nulla. Chissà se allora avesse pronunciato quelle parole o se era la voce della mia impotenza a parlare. Poco importava perché il mio aiuto era stato inutile allora come ora. Morì proprio come quel giorno e piansi.

Proprio come quel giorno.

Sullo scalino nascosto nella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora