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Iniziò così la mia nuova vita come garzone del panettiere Sàndor e poco a poco riacquistai la serenità. L'anziano benefattore si prodigò per insegnarmi tutto sul mestiere e io feci del mio meglio per non deluderlo. Disse che ero bravo e molto volenteroso e nella mia infinita insicurezza non so se lo dicesse perché lo pensava davvero o era solo un modo per incoraggiarmi, ma accettai il complimento.

La mattina mi alzavo presto per fare il pane, dedicandomi in seguito alle consegne e, quando avevo terminato tutti i giri, davo una mano in negozio. Non fu molto dura invero, in quanto mi ero fatto le ossa a lavorare nei campi per un anno intero. La guerra e la vita nel villaggio mi avevano trasformato, ma il mio fisico non era cambiato minimamente, restando asciutto e forse un po' troppo magre.

Adoravo fare le consegne girando in bicicletta per la città, nonostante fosse ormai inverno, ma non fu mai un problema per me. Dicembre era giunto da diversi giorni e con esso anche le prime nevicate e la cosa mi piaceva un sacco.

Il pomeriggio, invece, ero quasi sempre libero e ne approfittai per cercare un po' di svago, anche se in solitudine. La città si stava rialzando e alcuni dei palazzi crollati stavano per essere ricostruiti. Grazie al fatto che il signor Sàndor mi pagava ogni settimana, avevo sempre i soldi per godermi qualche giornata a modo mio. Ovviamente la maggior parte dei guadagni lo mettevo da parte in una cassettina nascosta nella mia stanza, in quanto volevo crearmi un futuro, almeno dal punto di vista economico. 

Il minimo indispensabile lo utilizzavo per godermi un caffè, oppure mostre d'arte, dal momento che non avevo denaro sufficiente per comprarmi il materiale per tornare a dipingere. Ogni giorno andavo a trovare il mio amico clochard e ogni giorno gli portavo qualcosa da mangiare; ci fermavamo a lungo a parlare, anche se il più delle volte era lui a raccontarmi di sé e io ascoltavo senza mai interromperlo. 

Poi, ovviamente, arrivava il momento di andare a trovare i miei genitori, sulla cui tomba portavo dei fiori freschi ogni settimana. Parlavo con loro, raccontavo cosa facevo, finendo puntualmente per piangere. Potevo sembrare un farloccone dalla lacrima facile, ma non potevo farne a meno. Mi mancavano da impazzire.

Budapest però non era più la città che amavo, che avevo imparato a conoscere nel corso della mia vita. Difatti uniformi sovietiche si aggiravano per la città, con i loro sguardi seri e che cosa stessero facendo non lo sapevo. Certo, in quei mesi avrebbero dato vita a una nuova forma di governo sulla base dei loro principi e la mia gente, anche se contraria, non avrebbe avuto la forza di ribellarsi, troppo stanca per reagire.

Quanto a me?

Non potevo negarlo, avevo paura che qualcuno di loro avrebbe potuto riconoscermi e giustiziarmi, anche se confidavo nel fatto che la mia sparizione fosse stata vista come morte sul campo di battaglia. Fortunatamente ciò non accadde mai, ma ogni volta che li incrociavo, cambiavo cautamente strada.

 A conti fatti ero un disertore, un traditore, ma non mi facevo schifo né provavo vergogna. Avevo sofferto fin troppo nei campi di battaglia, a mia volta avevo causato sofferenza e poteva bastare. Ciò che era accaduto in quegli anni non era stata colpa mia e non c'era altro da aggiungere.

Sullo scalino nascosto nella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora