7

14 3 0
                                    

La gioia per aver ritrovato la strada verso casa non durò molto e svanì nel momento in cui appresi una sconvolgente notizia. Budapest non esisteva più. Almeno, solo una piccola parte di essa poteva ancora dirsi viva, mentre per il resto regnava un cumulo di macerie, edifici distrutti e disperazione. Avevo lasciato un anno prima Debrecen, un deserto di morte e desolazione solo per trovarmi di fronte uno spettacolo forse peggiore.

Temevo di finire ancora nel bel mezzo della guerra, ma questa purtroppo era giunta fino al cuore dell'Ungheria e l'aveva pugnalata senza pietà, con un colpo letale che non lasciava alcuna speranza. Era terribile restare lì, in piedi, a vedere i resti della città in cui ero nato, cresciuto e in cui avevo promesso di tornare. Tutti i monumenti, gli edifici sembravano solo un ricordo. Mi domandai cosa avessimo fatto di male per meritarci tutto questo. Nel mezzo di quel pensiero, un timore altrettanto grave mi assalì. I miei genitori stavano bene?

Nonostante il mio quartiere fosse lontano dal centro, non impiegai troppo a raggiungerlo, forse aiutato dagli intensi giorni di viaggio. Ma, una volta, giunto nella via dove avevo sempre vissuto, mi trovai di fronte alla più terrificanti delle sorprese. Rischiai di avere un mancamento e per poco non caddi per davvero.

La mia casa non c'era più.

Al suo posto c'era un enorme spiazzo che copriva gran parte della zona adiacente, decorata da cumuli di macerie. Forse era stata una bomba a causare quello scempio, ma non mi fermai a riflettere e istintivamente mi diressi nel mucchio e iniziai a scavare con le mani. Non so se in tutto quel tempo passato in ginocchio qualcuno mi vide e, se era accaduto, aveva fatto finta di nulla ed era passato oltre. Passai l'intera notte a scavare tra le macerie, nonostante l'oscurità rendesse inesistente la visuale. In fondo sapevo cosa stessi cercando, anche se nella mia maniacale e automatica foga cercavo di non pensarci.

All'alba mi fermai. Non trovai alcun corpo.

Ciò non era affatto una notizia negativa, anzi, forse significava che al momento del disastro i miei genitori non si trovavano lì. Magari erano scappati e si erano rifugiati altrove e ora si trovavano al sicuro in un altro Stato. O forse erano stati catturati dai sovietici e tenuti prigionieri in qualche campo di lavoro. Smisi di accampare ipotesi e riflettei sul modo più veloce per ritrovarli, ma nella desolazione di Budapest era un'impresa difficile.

Istintivamente vagai per la città, ritornando al Centro, dove probabilmente si concentrava la maggior parte dei superstiti, ai quali avrei potuto domandare informazioni. Passai così l'intero pomeriggio a chiedere notizie sui miei genitori, ma nessuno pareva conoscerli. Poco prima dell'imbrunire mi adagiai su un muretto, sconsolato. Come se non bastasse regnava un freddo insopportabile, non avevo abiti pesanti e il cibo donatomi dagli abitanti del villaggio era oramai esaurito. Tuttavia ciò importava poco, mi interessava trovare la mia famiglia e solo dopo avrei pensato a me stesso. Non potevo rischiare di perdere anche loro. Erano tutto ciò che mi rimaneva.

Eppure, nonostante credessi di trovarmi in un punto morto delle ricerche, non dovette passare troppo tempo prima di venire a conoscenza della verità. In una piazza vicina, scarsamente illuminato, era stato allestito un palchetto attorno al quale v'era accalcata una folla gremita, intenta ad ascoltare un anziano uomo con in mano una serie di fogli, che leggeva ad alta voce e scandendo con precisione le parole. Mi avvicinai per ascoltare e, dopo pochi istanti, capii il motivo di tutto quel movimento; l'uomo stava leggendo i nomi delle vittime di Budapest.

Il vecchio seguitò a pronunciare i nomi degli sfortunati senza alcuna enfasi, come un automa. Dovetti assistere alle strazianti reazioni delle persone che, dopo aver scoperto la dipartita dei propri cari, si allontanavano disperati, chi da soli, chi confortati da amici o parenti. Naturalmente ero molto dispiaciuto per loro, anche se mi auguravo con tutto il cuore di non finire nella loro stessa situazione. Nel frattempo la lettura dei nomi seguitava, in un ordine sconnesso da quello alfabetico e ciò significava che i nominativi dei miei genitori potevano saltare fuori da un momento all'altro, senza preavviso.

Quando ciò avvenne, il mondo mi crollò addosso.

Spesso in quegli anni avevo sperato di trovarmi in un orribile incubo dal quale mi sarei svegliato sudato e ansimante, per poi chiudere la questione con una sonora risata. Ma questa volta sapevo che non c'era alcuna speranza. L'uomo sul palco guardò attorno e ripeté i nomi, nella speranza che qualcuno – in quel caso io – li avesse uditi. Nel frattempo la gente mormorava. Per qualche istante mi illusi del fatto che stessero parlando di loro, ma non credo qualcuno li conoscesse, come nessuno conosceva me, ragazzo invisibile nascosto tra una folla che si diradava secondo dopo secondo.

Rimasi immobile nella mia posizione per non so quanto tempo, ma abbastanza da accorgermi che ero rimasto quasi solo e che l'anziano, visibilmente stanco, aveva terminato la lettura. Per completezza, ribadì che tutti i corpi erano stati seppelliti in un cimitero lì vicino, laddove ognuno di noi avrebbe potuto farvi visita. Detto ciò scese dal palco e il buio si impadronì definitivamente di Budapest. Mi allontanai mestamente e all'improvviso scoppiai a piangere. Le lacrime uscirono copiosamente, come mai era avvenuto in vita mia, ricordandomi che non avevo potuto dargli un ultimo saluto.

Un ultimo abbraccio.

Quando mi fui parzialmente ripreso, decisi di recarmi al cimitero. Ne conoscevo l'ubicazione e, dato che non avevo alcun luogo in cui andare, mi sembrava doveroso visitarli. Durante il tragitto non mi passò per la mente che il camposanto potesse essere chiuso data la tarda ora, ma trovai il cancello aperto e il custode, intendo a lavorare in piena notte, mi diede il permesso di girovagare tra le lapidi alla ricerca di quella dei miei genitori.

Con il senno di poi mi chiesi come fosse possibile che qualcuno li avesse riconosciuti ma quando alla fine li trovai, alla fine di una lunga ricerca, non mi sentii affatto meglio. C'era una sola lapide, con i loro nomi scritti uno vicino all'altro. Erano morti insieme e insieme erano stati sepolti. Avevano passato la vita insieme e sarebbero stati insieme anche dopo di essa.

Egoisticamente tale pensiero non servì a consolarmi, in quanto ero rimasto solo.

Avevo abbandonato la comunità in cui mi ero integrato ma non me ne pentivo. Certo, sarei potuto tornare ma per qualche motivo non lo feci. Invece avevo scelto Budapest e, nonostante fossi solo, non mi sentivo di abbandonarla ancora. Certo, la città era un cumulo di macerie, cocci di vetro su un pavimento raso al suolo. Sarebbe stata ricostruita, ma non il mio cuore.

Quello era ormai in frantumi.

Sullo scalino nascosto nella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora