3. Come hai detto che ti chiami?

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Da piccola avevo sempre desiderato avere un pesciolino, solamente per potermi prendere cura di una piccola creatura. Guardavo quel gracile essere vivente, pensando a come si sarebbe sentito se lo avessi tolto dall'acqua e lo avessi lasciato libero per la mia camera. Lo immaginavo contorcersi, ma ho scacciato quel pensiero perché l'idea che potesse succedere mi metteva paura. 

In questo momento desidero che Gabriel si senta come un pesce fuor d'acqua.

Penso sia passata un'ora da quando sono arrivata in biblioteca e ho preso posto a un tavolo, aspettando un ragazzo che non sono sicura verrà.

Ho cercato di passare il tempo anticipando ciò che avremmo fatto se fosse venuto, ma sto cominciando a pensare che l'unica che si sta sforzando inutilmente qui sono io.

Oltre a non avere la voglia di aiutare qualcuno a studiare cose di cui non avrà mai sentito parlare, sono assonnata. Sento le palpebre pesanti ogni volta che abbasso gli occhi sui libri, e devo sempre scuotere la testa come un cane bagnato per rimanere sveglia.

Appoggio la fronte sulla pila di libri, volendo dormire, ma questa volta non è il mio metodo a tenermi gli occhi aperti, bensì un forte colpo al tavolo che provoca un brusco tremolio e un mio sussulto.

«Ma sei fuori?!» urlo contro Gabriel, portandomi una mano al petto e prendendo un lungo respiro. «Mi hai spaventata.»

«Il. Mio. Telefono.» scandisce.

Ho avuto una serata intera per pensare a una sua possibile reazione, ed erano quasi tutte simili a questa.

Tra le opzioni c'erano improvvisi scatti di violenza, come so essere sue specialità, un attacco con un'arma bianca che mi avrebbe uccisa di una morte lenta e dolorosa, o, scena più gradita, l'arrivo di un Gabriel calmo, che mi avrebbe salutata e si sarebbe messo a sedere, cominciando a collaborare e ascoltare ciò che avevo da dire.

Ma niente di tutto ciò è accaduto.

Lui è in piedi davanti a me, ora con le braccia conserte e lo sguardo assassino dipinto in volto. Ho paura che, se gli restituissi il telefono, decida di andarsene. A quel punto sarebbe fatica sprecata provare a fissare un altro giorno di studio.

«Beh, almeno sei venuto.» rifletto tra me e me. «Potrei... ma forse è meglio di no...»

Se tengo ancora in ostaggio il suo cellulare probabilmente rimarrà qui, ma c'è anche una possibilità davvero elevata che si stanchi e mi mandi a quel paese.

«Tieni, però devi rimanere.» decido alla fine, porgendogli il telefono.

Lo prende con la sua solita aria contrariata, e senza badare a quello che gli ho appena detto, gira i tacchi e se ne va.

Resto esterrefatta per un secondo, inutilmente dato che avevo previsto anche questo finale. Balzo giù dalla sedia e gli corro dietro.

«Ehi!» lo chiamo sperando che si fermi, ma prosegue totalmente calmo.

Sta per montare sulla sua moto, quando lo raggiungo e mi frappongo tra lui e la sua bellissima Ducati nera lucente, impedendogli di scappare.

«Scordatelo se pensi che ti lascerò andare così. Ormai sei qui. Non ti costa nulla.» sostengo il suo sguardo.

Mi osserva tenere le braccia aperte per impedirgli di passare oltre me, mentre risponde: «Lo sai che sei noiosa? Come fai a pensare che voglio studiare con te?»

Come ho detto: parole velenose.

«Senti.» prendo un profondo respiro. «Non mi interessi affatto. Sei antipatico»

«Grazie.» sorride fiero.

«Arrogante.»

«Me lo dicono in molti.»

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