29. Non sarà mai abbastanza

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«Questa casa è un casino.» borbotta mio padre, calciando col piede un cuscino rimasto per terra che scivola fino alle scale. «Voglio che sia tutto in ordine, quando torno.»

Con la mano premuta sulla tempia, dove posso immaginare le condizioni del livido, mi avvio con impazienza verso il piano di sopra. La sua voce, prima di andare, torna a procurarmi dolore: «Vedi di fare qualcosa per quella ferita. Se mi metti nei guai, ti uccido.»
Respiro profondamente. Un lieve bruciore prende a torturarmi gli occhi, puntati sullo scalino che ero intenta a salire, mentre lo sbattere della porta mi annuncia con sollievo che sono sola.

Rilascio l'aria.

Calmati, mi ripeto mentalmente, non piangere.

L'angoscia racchiusa nei miei respiri è come un serpente: scivola lungo l'esofago, e una volta introdotto nel mio petto, si nutre del mio cuore.

A volte mi sembra che non guarisca.

Arrivata nella mia stanza, nel mio rifugio, attendo dei minuti necessari a calmarmi e mi avvicino allo specchio.

Vedo una ragazza, sembra così piccola, con quella ferita all'angolo dell'occhio.

Il mio sguardo scorre sul suo collo, dove noto che ha un altro livido, più lieve. Lei si sfila la maglietta del pigiama, mostrandomi ci che ha subito per così tanto tempo.
Mi chiedo perché mai qualcuno le abbia fatto questo.

Nei suoi occhi si pu leggere il disgusto come fosse stato scritto in caratteri più grandi, l'orrore della realtà che le ha macchiato il corpo e l'anima, spegnendola come una lucciola morta.

Perché non parla?

La paura è talmente forte da impedirle persino di provare a salvarsi? La ragazza si porta una mano sul fianco. Noto che ha una cicatrice, ormai chiusa da tempo. La accarezza con occhi velati.
Le avrà fatto male, o forse no. Forse ci che le fa più male è non averlo impedito, perché poteva.

Ma quanto può essere facile impedire tutto questo?

Lei adesso mi sta guardando, ma sorride. Un abbozzo lieve che ha il fine di rassicurarmi. Le sue labbra mimano due parole: "Sto bene." Vorrei crederle, vorrei davvero, ma i suoi occhi stanno urlando e quel rumore è assordante, lacerante.

Ritornando coi piedi per terra, apro il cassetto sotto lo specchio e comincio a coprire il livido come meglio riesco con del correttore.

Mi accerto che non sia troppo visibile e finisco di prepararmi. Kyle ha detto che sarebbe passato a prendermi, così da trascorrere il viaggio in bus insieme.

Oggi avrei fatto a meno di andare a scuola, ma la poca attenzione che sto dando allo studio rischia di influire sulla mia media. Ho bisogno di rimanere concentrata, ottenere un ottimo risultato all'esame e magari guadagnare una borsa di studio per l'università.

Non devo farmi distrarre.

«Eccomi.»

Dopo dieci minuti di attesa fuori dalla porta, Kyle mi corre incontro col fiato dimezzato, lo zaino stretto al petto e l'aria di uno che si è appena svegliato. Arresta la sua corsa davanti a me e si piega sulle ginocchia. «Non mi sono svegliato. Ho un serio problema, davvero.»
«Sei solo un'adolescente pigro.» ruoto gli occhi al cielo, ma lui mi rifila un'occhiata contrariata.
«Magari sto per morire.» ipotizza quando ci avviamo in direzione della fermata. «O morir . Sognare di dormire è strano?»
«Dicono che se ti capita, sei morto.»

Le mie parole sembrano terrorizzarlo, il che mi procura un sorriso.
Fortunatamente, non si è accorto di nulla.

Tra varie chiacchiere e risate, arriviamo a scuola. Il nostro leggero ritardo fa sì che la campanella ci porti via i minuti che di solito sfruttiamo per preparare i neuroni a un'altra lunga giornata scolastica.

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