21. Ci stai prendendo gusto

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Una volta giunta la sera, mi rifugio in camera e prendo un libro dalla mia libreria, cominciando a rileggerlo per la terza volta.

Di solito non leggo mai i libri più di una volta, se non dopo molto tempo, quindi mi concedo di sfogliare solo le parti che più mi sono piaciute.

Dovrei comprarne altri. Almeno saprò cosa fare per i prossimi anni della mia vita.

Osservo fuori dalla finestra gli alberi mossi dal vento prima a destra e poi a sinistra. Oggi sembra una brutta giornata.

Improvvisamente odo un rumore al piano di sotto, segno che mio padre è a casa. Decido di scendere, o troverà un motivo di rimprovero anche in questo gesto.

«Eccoti.» mi racchiude nel suo sguardo rosso, appena appaio sulla soglia della cucina. «Dov'è la mia cena? Ti ho sempre ripetuto che voglio trovare il cibo pronto quando torno. Devo occuparmi io anche di questo, o riesci a prepararmi qualcosa di mangiabile?»

Mi avvicino ai fornelli. «Lo faccio subito.»

«Via, va'.» mi allontana con una spinta. «Faccio da solo, come devo fare tutto il resto. Sei una donna e non sai cucinare! Ti sarebbe stata utile una madre, perché non sei contenta di me, vero? Vattene di sopra. Oggi non ceni. Devi imparare a fare le cose da sola, stupida ragazzina viziata.»

Non perdo tempo e accolgo con entusiasmo il fatto che mi permetta di starmene da sola, nonostante la mancanza di cibo. Ma lo sento chiamarmi.

«Oh, dimenticavo.» si infila una mano in tasca e ne tira fuori il mio cellulare, rimanendo di spalle. «Squilla troppo spesso. Ti sei trovata degli amici, tesoro?» serra le dita attorno all'apparecchio elettronico e ride, prima di sollevare il gomito e gettare il mio telefono per terra con una forza tale da fracassarlo totalmente.

Cerco di non ribattere e digrigno forte i denti, mentre la sua immagine si fa leggermente offuscata.

«Vattene.»

Torno velocemente di sopra e raggiungo il bagno, dove mi cambio per non essere costretta a farlo dopo, quando potrei incrociarlo, e mi sciacquo il viso arrossato.

Mi soffermo a guardare la mia figura allo specchio, mentre sfioro con le dita i lividi sparsi sul mio corpo.

Appoggio la mano sotto la clavicola, dove giace una grande macchia violacea. Questa me l'ha procurata quando non sono tornata a casa la sera in cui mi sono addormentata da Gabriel.

Non lo fa per farmi imparare una lezione, ma bensì per suo piacere personale.
Ogni volta vorrei solo poter scappare e piangere fino a non avere più lacrime.

Vorrei guardare il mio riflesso coperto dai lividi e non provare il forte desiderio di morire e non soffrire più.
Ma ogni volta i miei desideri rimangono solo questo: desideri.

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Io e Gabriel siamo tornati alla normalità, se non si tiene conto della sensazione d'imbarazzo che mi inonda quelle volte in cui la sua vicinanza è estrema, o quando il suo sguardo indugia su di me per un tempo troppo lungo.

Oltre ciò, tutto prosegue come al solito, con la differenza che Corinne ha deciso di passare il tempo con noi ad ogni minuto delle ore di lezione. Chi incolpare di questo se non Gabriel?

Al suono della campanella, ci dirigiamo tutti insieme verso l'uscita, mentre spero dentro di me che Corinne decida di proseguire per la sua strada. Inoltre, il fatto che Gabriel mi cammini accanto non migliora il mio umore.

«Qualcosa non va? Non hai aperto bocca ed è strano.» quest'ultimo mi stuzzica col gomito.

Nascondo i pugni stretti dietro la schiena e distolgo lo sguardo. «No. Va tutto bene.»

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