46. Lui ha vinto

23K 1K 1.4K
                                    

Ricordo bene quel giorno.

Vivevamo nella casa di un vecchio amico di papà, appena fummo arrivati a New York. Mio padre non aveva un lavoro, quindi abitammo nel piccolo monolocale di quell'uomo del quale non ricordo più il nome. Si trovava in un quartiere malfamato della città, ma, dopo un po' di ricerche, l'ho trovato.

Quel giorno mio padre tornò prima. Passava le sue serate ad un bar, a ubriacarsi, mentre avrebbe dovuto cercare un lavoro stabile. Solo in seguito riuscì a farsi ammettere come impiegato d'ufficio, su raccomandazione di un amico, e comprare la nostra casa. Il sole era ancora alto in cielo. Penetrava dalle finestre coperte dal chiaro colore delle tende, che davano alla casa un aspetto confortevole e carino, sicuro.

Io ero in soggiorno, impegnata a leggere un vecchio libro trovato tra le cianfrusaglie dell'amico di papà. Non sentii nemmeno la porta aprirsi. Quella mattina dello stesso giorno le cose sembravano promettere bene: mio padre non mi aveva rivolto la parola ed era uscito senza soffermarsi per un secondo su di me.

Il pomeriggio si comportò in ugual modo. Quando vidi la sua figura davanti a me, mi tolsi velocemente le cuffiette e lo fissai spaventata.

Non mi guardava neppure.

Ricordo bene: si è diretto con passo lento, quasi stanco, verso la cucina; ha aperto il frigo ed è rimasto piazzato davanti ad esso per qualche secondo, accarezzandosi il mento come se stesse pensando; ha chiuso il frigo e si è diretto verso il bancone; aveva appoggiato le mani sulla superficie piatta e aveva abbassato la testa, pensieroso.

Io non avevo fiatato. Non un "ciao", o un "com'è andata al lavoro?"
Avevo preferito lasciare le cose come stavano: calme.

Ho seguito mio padre con lo sguardo verso l'unica camera da letto della casa. Mi ero spaventata, perché in mano aveva un coltello.

Teneva la lama bassa mentre saliva i gradini, ma la luce del sole rifletteva sull'oggetto e lo rendeva protagonista della scena. Per qualche motivo, mi sentii audace e curiosa. Avevo paura, ma il voler sapere cosa stesse tramando mio padre predominava.

La camera era chiusa a chiave. La chiudeva sempre quando lui o il suo amico erano via. Non l'avevo mai vista.

Mi fermai sulla soglia e sbirciai ogni sua mossa. Mio padre, la prima cosa che fece, fu buttarsi per terra. Le gambe erano stese sul pavimento, le mani davanti alla faccia e il busto chino in avanti. Mi dava le spalle.

L'ho sentito emettere un verso roco, grottesco, rabbioso, e poi il coltello è volato oltre il suo letto. Il rumore fu lieve.

Non so quanto tempo rimase lì seduto, i muscoli rigidi ma allo stesso tempo flosci. Mio padre sembrava soffrire.

Poi si è alzato. Piano, con fatica e malavoglia.

Si è diretto barcollando verso la credenza e ha aperto l'ultimo cassetto. Non so cosa ci tenesse dentro, non riuscivo a capirlo da quella distanza.

È rimasto inginocchiato a terra, le mani strette ai bordi del cassetto. Ricordo il suo sguardo. Gli occhi gli bruciavano di rabbia, di odio. Ha dato un forte pugno al mobiletto, ringhiando. Avevo sussultato ed emesso un gridolino, ma mio padre non sembrava mi avesse udita.

Aveva infilati la mano nel cassetto e rovistato alla ricerca di qualcosa.

Lo scoprii solo quando alzò l'oggetto in aria.

Fissavo quella pistola con gli occhi spalancati. E mi spaventai ancora di più quando mio padre guardò me. Con quegli occhi della mia stessa tonalità di grigio, tanto simili ai miei, ma che racchiudevano sentimenti opposti.

DifficultDove le storie prendono vita. Scoprilo ora