La pioggia cadeva fitta, un incessante brusio che ovattava ogni suono, che mangiava ogni scorcio di sole e rinchiudeva in gabbia ogni pensiero. Era come se il cervello si trovasse improvvisamente imbrigliato nelle proprie stanze, a guardare fuori dalla finestra, con alle spalle tutti i problemi a cui non voleva dare ascolto. Ci eravamo dovuti fare una bella corsa dall'edificio alla sua auto. L'aveva lasciata in un parcheggio pubblico perché a quanto pare non aveva un garage a disposizione. E senza nemmeno un ombrello in casa, ci eravamo improvvisati podisti.
Correva veloce lui, come se non facesse altro. Trascorrere del tempo gomito a gomito mi aveva fatto scoprire che in realtà Mr.Lattner era un tipo parecchio atletico. Senza contare lo spettacolo a cui avevo potuto assistere nei bagni maschili del Count: quel fisico palestrato e definito tormentava ancora i miei più torbidi sogni.
Passai velocemente le mani sulle braccia, cercando di frenare i brividi.
L'auto di Lattner era tutto fuorché moderna. Un catorcio con quattro ruote, vecchio di secoli e dall'aria malconcia. Lo avrebbe potuto lasciare parcheggiato perfino con le chiavi nel cruscotto, nessuno si sarebbe preso il disturbo di farci un giro.
Non ero nemmeno sicura che partisse fin quando non accese il quadrante e con uno scoppio simile a un colpo di tosse l'auto sembrò prendere vita. Fu quasi un miracolo.
Non c'era nemmeno il riscaldamento in quel trabiccolo infernale e infatti stavo gelando.
Lattner guidava deciso, con una mano impiantata sul volante e una che si muoveva agilmente sul cambio per poi ricadergli in grembo quando non serviva. Aveva un'aria assorta. Guardava con attenzione la strada. Sembrava che ci fosse solo lui in quell'abitacolo. Questo fin quando non mi rivolse la parola per la prima volta, dopo minuti interi di silenzio. «Che vuoi mangiare questa sera?»
Era una domanda banale eppure racchiudeva una quotidianità che presto avremmo condiviso con costanza. Tentai inutilmente di non arrossire.
«Non so. Potrei cucinare io.»
Staccò gli occhi per un breve attimo dalla strada e mi guardò sorpreso. «Sai cucinare?»
«Ma certo! Per chi mi hai preso?» borbottai gonfiando offesa le guance.
Rise. «E dire che ti immaginavo più come uno che non è nemmeno in grado di farsi un uovo sodo.»
Gli sferrai un pugno sulla spalla. «Ma che stronzo! Ma ti pare? Sono bravissimo! Ti stupirò, vedrai!» Mi abbandonai contro il sedile e fissai l'acqua che si abbatteva contro il finestrino. «In realtà, ho imparato da poco a farmi da mangiare. A casa mia era sempre mio fratello Adam a preparare le cose.» Il momento del pranzo era forse uno dei pochi momenti felici che condividevo con la mia famiglia. Se felice si può davvero definire. Eravamo tutti a tavola, presenti anche se assenti. Adam era un cuoco provetto, mia madre si sollazzava mentre lasciava a lui le redini della cucina e mio padre veniva a tavola solo quando era già tutto impiattato.
Sembravamo una famiglia, una vera famiglia, solo in quei frangenti. Era pura apparenza in realtà, perché nessuno parlava, trincerato dietro le proprie barriere fatte di problemi e orgoglio, però, per lo meno condividevamo l'attimo del pasto.
«Non sapevo avessi un fratello.»
Scossi le spalle. «Sì. Più grande di cinque anni. Un vero rompipalle.»
«I fratelli maggiori sanno sempre essere dei gran rompipalle, concordo.» La malinconia che captai nel suo tono di voce mi costrinse a girarmi per vederlo in viso. Aveva ancora gli occhi puntati sulla strada ma le sopracciglia erano aggrottate in un'espressione cupa.
«Anche tu hai dei fratelli o sei figlio unico?»
Lattner cambiò marcia con troppa forza, grattando. Sembrò a disagio per la domanda ma rispose: «Un fratello maggiore... Samuel.»
STAI LEGGENDO
Problema Pericoloso - Scorpion Queen (vol.1)
Lãng mạnRobin O'Neil ha fatto molti errori nella sua vita. È caduta, si è rialzata e ha imparato cosa vuol dire pagare a proprie spese gli sbagli commessi. Ripudiata dalla famiglia e allontanata da casa è stata spedita dai genitori al Missan College: uno de...