45. Occhi familiari

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"Allora, cosa fanno gli adolescenti nel centro di Atlanta?"chiedo a Tyler curiosa.

Ogni città ha i suoi modi di fare.
Nelle periferie di Denver, per esempio, ci si riunisce nel giardino di una delle case della propria via e si passa tutto il pomeriggio a giocare con gli altri bambini.

Le mamme, invece, si siedono attorno ad un tavolo nel giardino della grande villa, e si aggiornano a vicenda sui nuovi gossip riguardanti il vicinato.

Io non ho avuto le occasioni per farlo, ma questa è un'altra cosa.

"Non so, devono, si drogano?", risponde con un sorriso amaro.

"Almeno, era quello che facevo io", aggiunge.

"Davvero?", chiedo, fermandomi in mezzo alla strada.

Si gira e mi guarda negli occhi.

"Ti avevo detto che ho fatto cose di cui non vado fiero, ma non avevano importanza per me.
Era solo un modo per distrarmi e dimenticarmi di quello stronzo di mio padre e di...
Di tutto il resto, ecco", ammette.

"È sempre per questo che combatti?", gli chiedo brusca.

Non mi sono mai dimenticata quello che mi ha detto quella sera alla festa dopo l'ultima partita di football, quando mi ha detto che mi amava.
Stavo solo aspettando il momento giusto per chiederglielo.

"Come fai a saperlo, nocciolina?"

"Me l'hai detto tu quella sera, quando mi hai detto che il tizio che mi aveva...
Insomma, che ci avevi combattuto ed era arrabbiato con te", gli ricordo.

Ripensando a quella sera, dove è nato tutto, gli spunta un mezzo sorriso.

"E tu di tutta quella sera ricordi solo questa parte?", chiede mettendo il broncio, facendo finta di essere offeso.

"Rispondimi, Tyler"

"Si, è sempre per questo che combatto.
E per fare un po' di soldi, ma principalmente per questo.
Che combattevo, comunque."

"Hai smesso?", domando perplessa.

"Si, non combatto da...
Non so, circa da quando ti ho conosciuta, quindi fai due conti", risponde, e un leggero sorriso si apre sul suo volto, sottolineando i suoi lineamenti definiti, e mettendo in risalto i suoi occhi.

"Perché?"

"Perché non ne ho più motivo.
Prima lo facevo per sfogarmi, per dimenticare. Ma adesso ci sei tu che mi fai dimenticare tutto quello che ero, e tutto quello che ho fatto.
Sei la mia cura, nocciolina", dice, con un sorrisetto impertinente sul volto.

"Non è una cosa carina da dire ad una ragazza!", esclamo fingendomi offesa.
Ma in realtà sono felice di sentire queste parole.

"Quindi, dove andiamo?", chiedo a Tyler poco dopo.

"Non lo so. Hai fame? Mangiamo qualcosa?"

"Va bene".


I grattacieli saranno anche alti e innovativi qui, e gli ospedali ben attrezzati e con anziane gentili e premurose, ma di certo il cibo non è il loro forte.

"Non ricordavo si mangiasse così male in questa città", dice Tyler divertito una volta usciti da un locale "tipico" di Atlanta.
Tipico si fa per dire, ovviamente.

"Almeno oggi abbiamo imparato che sarà meglio cucinare a casa, la prossima volta"

"Che ore sono?", domanda, e percepisco nervosismo nella sua voce, lo stesso che aveva prima in ospedale, anche se cerca in tutti i modi di mascherarlo.

Guardo il mio orologio.
"Le sei e un quarto, forse è meglio tornare"

"Già... ", risponde piano, quasi sottovoce.

"Andrà tutto bene, Tyler", cerco di rassicurarlo, e lui mi rivolge un sorriso tirato.

"Lo spero anche io"

Il resto del viaggio a piedi verso l'ospedale prosegue in silenzio, e quando arriviamo davanti al grande edificio, sembra che nessuno dei due voglia entrare davvero.

Lui perché probabilmente ha paura di rivedere sua madre, malata e in fin di vita.

E io perché ho paura della reazione che avrà Tyler, o che potrebbe avere, nel rivederla.

È in questi momenti che penso davvero di essere fortunata.
Non posso dire che la mia famiglia sia la cosa più bella che ho, che mi renda felice saperci divisi, ma almeno, anche se separati, li ho accanto a me.

In fondo voglio bene a mia madre, e a volte mi sento in colpa, perché probabilmente non le do l'importanza che merita.

E mio padre si, ce l'ho con lui per aver tradito mia madre e per aver spezzato la mia famiglia, la nostra famiglia.

Ma so di non potermela prendere più di tanto.
È andata così, non posso essere arrabbiata con lui per sempre.

Io, attraversata questa soglia, non dovrò dire addio a mia madre per sempre.

Ma Tyler si.
E so di non poter far altro che stargli vicino.

Prima di entrare, si gira a guardarmi, come per cercare conforto.

"Nocciolina, non ti ho mai ringraziata davvero per avermi seguita fino a qui, e di averti rovinato il compleanno.
So che ti è costato molto", ammette, e vedo che quasi si sente in colpa.

"Non fa nulla, Tyler. Finché so che posso starti vicino e che posso aiutarti, non è un problema.
Anzi, sono felice che tu me l'abbia chiesto.
Vedendo quanto ti fa male stare qui, sono felice di non averti lasciato solo"

Abbozza un sorriso, ma vedo che è nervoso.

Non vede la madre da quattro anni, e ha solo questi due giorni per dirle addio davvero dopo che non c'è stato per tutto questo tempo.
E non per colpa sua.

Dopo quelli che sembrano minuti interminabili, rimettiamo piede nel grande edificio e torniamo alla reception dove siamo andati prima.

Per fortuna c'è sempre la signora di prima che, appena ci vede, ci rivolge un grande sorriso.

"Ora possiamo vederla?", chiede Tyler brusco.

Ma non gli dico nulla stavolta, lo capisco.

"Certo, caro. È nella stanza 412", ci dice, congedandosi con un gran sorriso di incoraggiamento.

Mi giro e mi avvio verso i cartelli che indicano il posizionamento delle stanze, cercando di orientarmi sulla grande cartina.
Qui dice che la stanza 412 è al pian...

Mi giro di scatto, come se mi fossi risvegliata da un brutto incubo, ma Tyler non è di fianco a me.

Vedo che si è fermato in mezzo alla sala d'attesa, e sta fissando qualcosa.

Anzi, qualcuno.

Seguo il suo sguardo, e noto un ragazzo, di circa ventidue anni, con i capelli castani e gli occhi azzurri.
Ha i lineamenti definiti, e i capelli leggermente scuri a coprirgli una parte della fronte, affacciandosi sugli occhi chiari.

È alto, magro ma allo stesso tempo muscoloso, e ha un'espressione strana sul volto.

Perché quegli occhi mi sembrano così familiari?

Poi, sento Tyler dietro di me sibilare:


"Dan."

Non mi toccareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora