~1976. New York
«Dai papà! Ti preeeego» lo supplicavo, cercando di fare quei classici occhioni a cui non poteva resistere.
Lui mi guardò piegando un angolo della bocca, mentre io iniziai a saltellare ed allungare le braccia per raggiungere le sue spalle ed arrampicarmi, anche se l'unica cosa che ottenni furono le sue mani che si posarono sulle mie, nel tentativo di calmarmi
«Natasha, no.»
«Ma perché? »
«Non possiamo comprare un fenicottero!»
«Ma a me piacciono! E poi anche zio Howard ne ha uno!»
Mi prese in braccio, tenendomi per la vita e dandomi un colpetto sul naso con la mano libera.
Io mi appoggiai per un attimo con la testa sull'incavo del suo collo, inspirando quel dolce profumo da dopobarba che tanto amavo e sfiorando con la punta delle dita i muscoli del suo petto.«Eh... Cosa devo fare io con te?» sbuffò, tentando di nascondere una risata
«Comprare un fenicottero. O un koala, o un lama o...un unicorno! Un cucciolo di unicorno!»
«Uff» si voltò verso la porta alle sue spalle, mentre io avevo già intuito che avrebbe chiamato la mamma in suo soccorso «PEGGY! TUA FIGLIA VUOLE UN FENICOTTERO!»
«Oh quindi ora è mia figlia? Mentre quando dorme immagino sia la tua, giusto?»
Rispose la voce di lei, mentre nel giro di un secondo anche Peggy Carter ci raggiunse, finendo di sistemarsi l'abito e con un sorriso sulle labbra. Indossava un semplice vestito blu accompagnato da un cappello rosso, ma su di lei ogni cosa stava da Dio. Eppure, nonostante ciò, la cosa più meravigliosa in quella stanza era proprio lo sguardo di papà.
I miei genitori vivevano insieme da... Beh, sempre dal mio punto di vista, ma non c'era giorno in cui lui non le mostrava tutto il suo amore. Magari con una semplice carezza, con una dolce parola o anche con uno sguardo, ma io ero certa che non c'era al mondo forma più pura di quel sentimento.«Sei bellissima» sussurrò sottovoce papà, facendosi sentire appena
«Papy, sono più di nove anni che sei sposato con lei, dovresti conoscere ogni suo particolare a memoria ormai!» lo presi in giro io, facendo ridere tutti quanti
«Sì beh... Hai ragione» rispose, diventando lievemente rosso in viso «Ma a dire il vero sono molti di più gli anni da cui siamo sposati, sai?»
«Sì, lo so. Ma non ci tengo a sapere i particolari»
Aspettai che lui mi riponesse a terra, lasciando che la sua risata si rispecchiasse per un ultimo secondo nei miei occhi; per poi allontanarmi in fretta a recuperare le mie cose e lasciando gli adulti a parlare in pace da soli, anche se con loro non servivano troppe parole ed erano in grado di capirsi anche solo con uno sguardo.
Indossai il giubbotto e, messi colori e fogli dentro la cartella, feci per tornare dai miei, ma non potei fare a meno di fermarmi davanti allo specchio ad osservare il mio riflesso. Una bimba alta poco più di un metro, questo ero, sebbene mentalmente fossi più avanti di molti altri ragazzini della mia età; ma a me piaceva osservare i dettagli delle persone, i loro particolari, fino a leggere attraverso i loro occhi i segreti che nascondevano.
Ed io ne avevo di segreti di nascondere!
Mi avvicinai ancora di un passo a quel fragile vetro, osservandomi attentamente: le mie iridi marroni sembravano brillare leggermente, mentre le labbra rosse si piegavano in un sorriso malinconico e i capelli castani circondavano il mio volto. Ero identica a mia madre, o almeno questo era quello che dicevano zio Howard e zio Edwin, mentre dentro di me batteva il "cuore di un leader", quello di mio padre... Quello di Captain America.«Natasha, sei pronta?» mi riportò alla realtà la voce di mia madre, mentre io risposi annuendo e correndo verso la porta
Non salutai neanche mio papà, emozionata com'ero per la giornata che mi aspettava, ignorando il fatto che non ce ne sarebbero state altre di simili.
Salii in fretta e furia in macchina, accomodandomi sul sedile del passeggero e stringendo al petto il mio zaino blu, senza dimenticarmi di mettermi la cintura di sicurezza, ovviamente.
«Le ricordi le regole, vero piccola?» domandò mamma, salendo al mio fianco ed iniziando a guidare
«Certo! Ma perché oggi sarà diverso?»
«Te l'ho già spiegato, 'Tasha. Di solito tu vieni in ufficio con me e resti lì a farmi compagnia, ma oggi ho un impegno importante e dovrai restare qualche oretta con Daniel»
«Va bene, tanto zio Daniel è simpatico!»
«... E con Jack»
«Oh, c'è anche il signor Thompson» risposi sconsolata, portando lo sguardo fuori dal finestrino e osservando la strada mentre lei parcheggiava
«Questo per te è un problema?»
«No, tranquilla mamma» aggiunsi, tornando a guardare davanti a me ma sentendo uno strano presentimento nascere in un angolo del mio cuore.
Non sapevo perché, ma una brutta sensazione stava crescendo dentro di me, alimentata probabilmente dal fatto che avrei dovuto passare del tempo con il signor Thompson. Lui era l'unico, di quelli che all'epoca conoscevo, che chiamavo per cognome e mettendo la parala "signor" anziché "zio" , anche se delle volte mi pareva si sforzasse di essere gentile con me.
Sprofondai con la testa sullo zaino, facendo dei piccoli respiri e sentendo la mano di mia mamma posarsi sulla mia spalla
«Natasha, dico davvero: se per te è un problema-»
«No no, non è questo, ma... Perché non possiamo dire a tutti la verità? Perché non diciamo a tutti che Steve Rogers è vivo? E perché alcune volte papà quando mi chiama sembra voglia piangere?» sbottai, alzando di scatto il capo e fissandola negli occhi
«Natasha io... ci sono cose per cui sei ancora troppo piccola»
«Seh, l'ho imparata a memoria questa frase ormai...» mormorai, scuotendo la testa e provando a sorridere. Facevo spesso questo tipo di domande a lei, ma ogni volta la rattristavo. Mi sentivo una pessima figlia «Fa nulla. Oggi possiamo andare al parco? Quando hai finito, si intende»
Lei tornò a guardarmi, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e sorridendo dolcemente. Non sapevo a che stesse pensando, ma i suoi occhi erano coperti da un velo di tristezza che a fatica riusciva a nascondere, mentre un raggio di sole, attraversando il finestrino, faceva risplendere la fede dorata che portava al dito.
«Mamy, andiamo ora?» chiesi, facendo trasparire un'altra delle tante sfumature del mio carattere: l'impazienza
«Ah sì sì, ora andiamo! Certo che sei proprio come tuo padre!» sbuffò lei, trattenendosi dal ridere
Io per tutta risposta aprii la portiera, scendendo dal mezzo con un salto e dirigendomi verso l'enorme edificio che avevo dinanzi, senza neanche aspettare mia mamma.
Tanto ero certa che era dietro di me, anche mentre mi dirigevo da sola verso una delle basi dell'S.S.R (luogo dove lei lavorava), pronta a difendermi.Perché è questo che fanno i genitori: ti proteggono. Sempre.
E io ero sicurissima che loro lo avrebbero fatto, perché non avrebbero mai potuto rinunciare a me o al loro amore. O meglio... Così credevo, finché non arrivò quel fatidico giorno che cambiò tutto.
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IO L'HO SEMPRE CHIAMATO PAPÀ
FanficProbabilmente non è ancora stata inventata la giusta parola per descrivermi. C'è stato un tempo in cui ero allegra, spensierata, innocente (ma non troppo)... Ma per lo appunto, lo ERO. Poi incontrai Tony Stark, sebbene mio padre mi avesse sempre det...