Occhio, malocchio, prezzemolo e... muffin al pistacchio

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Sto camminando per le vie di Torino, mani nelle tasche dei pantaloni e borsa che ogni due passi batte sul fianco. Continuo a pensare alla mia discussione con Angela, alla sua espressione di delusione poco prima di abbandonare la caffetteria e, soprattutto, continuo a pensare al suo naso.

Ci ho riflettuto molto prima di comprendere che la mia reazione non è stata una semplice questione di idealismo. Non mi sono opposta al suo intervento chirurgico soltanto perché credo che bisogna accettarsi senza alcuna modifica e che provare a cambiarsi sia sinonimo di debolezza.

No, ho reagito così male alla decisione di Angela perché il suo cambiamento metterebbe in evidenza l'assenza del mio.

Se da un giorno all'altro la mia amica si presentasse a casa con un centinaio di grammi di cartilagine e peli in meno, io sarei costretta ad abbassare lo sguardo sulla mia pancia voluminosa e a pensare che una come Angela è stata costretta a pagare fior fiori di quattrini per farsi operare. A me, invece, basterebbe una dieta. E questa è gratuita, e non prevede un chirurgo con un'ascia pronto a tranciarti il naso.

E io non voglio affatto pensare a tutto questo.

Smetto di camminare, apro la borsa e mi accerto che il muffin al pistacchio che ho portato via dalla caffetteria, sia ancora ben racchiuso nel tovagliolo di carta. Appena lo vedo gli sorrido, lo accarezzo con l'indice e gli sussurro parole dolci come "stasera ti mangerò tutto".

Mentre sono ancora impegnata a coccolare parte della mia cena, alla mia destra qualcuno sta provocando uno strano suono, simile a una maracas scossa da un africano con il gonnellino. Quando mi volto, ciò che vedo non si scosta di molto dalla mia immaginazione: una signora per nulla smagrita e seduta sul marciapiede, con la schiena un po' ricurva appoggiata al muro di un appartamento e le gambe attorcigliate tra loro, sta scuotendo un barattolo di alluminio contenente un paio di monete. Indossa un lungo abito arancione, macchiato qua e là da sprazzi di svariati colori, e non saprei dire se questi facciano parte del disegno dell'abito o siano macchie di sporcizia accumulatesi nel tempo; sul capo è poggiato un turbante della stessa tonalità del vestito e accanto a lei si trova un bastone da passeggio. Più la osservo, però, maggiore è la certezza che questa donna è più sana di quello che vuole far credere.

Sta ancora scuotendo il suo barattolo di alluminio e solo adesso noto che mi sta osservando con gli occhi semichiusi. Così come ha cominciato, ad un tratto smette di far tintinnare le monete.

<<Ehi tu!>> mi dice, gridando con la sua voce rauca e doppia.

Io, intanto, fischietto e guardo il cielo.

<<Tu>> dice ancora, urlando più forte di prima.

Con la coda dell'occhio vedo che questa volta ha puntato il dito verso di me, quindi mi affretto a camminare. Con tutta la gente che gira a Torino, vuoi vedere che cerca proprio da me qualche spicciolo?

Ma non mi permette di fare un passo, perché riprende a scuotere il barattolo e grida ancora.

<<Dico a te, la signora cicciona.>>

Mi blocco, volto lentamente il busto e la guardo con un sopracciglio sollevato. Tra di noi c'è una distanza di circa un metro.

<<Dici a me?>>

<<Certo, vedi qualche altra cicciona in giro?>>

Mi avvicino a lei con lentezza, poi mi piego a novanta gradi e la guardo dritto negli occhi.

<<Sì, tu.>>

Questa donna si apre in un larghissimo sorriso sdentato e comincia a far sussultare il petto per le risate. Poco dopo mi tira uno schiaffo sul fondoschiena.

Scusa se sono grassaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora