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Non mi sentivo come avevo immaginato. Non ero certamente felice e spensierata, ma non avevo l'istinto di piangerci sopra. Ero più che altro senza parole, magari delusa. Forse la colpa poteva essere assegnata a me: insomma era da scemi credere che il nostro rapporto non avrebbe risentito della lunghissima assenza. Per quanto ci avessimo entrambi provato, ancora non ci conoscevamo. Pensai che semplicemente si sentisse obbligato a tenermi con sé. Fosse successo in un altro momento avrei cercato di scacciare via quei pensieri rancorosi ma non ero in condizioni di fare ragionamenti puliti, no, allimentavo ancora di piú le tenebre della mia testa e riuscivo a percepire come il mio cuore stesse marcendo. "Vuole più bene a lei, anzi sarebbe già qualcosa, invece tu se solo un peso." Questo pensiero mi ribombava in testa sottoforma di vocina irritante che mi graffiava i nervi. Volevo strapparmi i capelli e ridurre a frantumi le vetrate di quella casa. Era eccessivamente grande ma ci soffocavo. Ero raggomitolata nella vasca vuota. Stringevo le gambe al petto e sarei potuta passare per pazza per il modo in cui i miei occhi si muovevano in cerca di un piano. Mio padre era appena uscito ma prima si è assicurato di scambiare due parole con la figlia con cui non scontrava occhi da giorni. Non mi ricordavo quel lato di lui. Severo e senza emozioni. Una statua, uno zombie, un estraneo. A quanto pare era profondamente deluso, non credeva che fossi una ragazza simile. Mi colpì il cuore, o almeno quello che era rimasto. Lo guardavo con viso contorto dal dolore, che le sue parole mi stavano provocando, ma lui continuò impassibile: il mio posto era nella strada e quella puttana di mia madre non era stata ingrado neanche di educarmi. Dopo questo non potevo che reagire, anche se ero senza forze, lo spinsi ripetutamente mentre lui diceva "Brava, brava, dimostrami che ho ragione." Quel comportamento mi fece spaventare e mi lasciò ancora più schifata di me stessa. Avevo ufficialmente perso tutti. Il mio Andrea, o meglio solo Andrea adesso, mia madre, mio padre e sorprendentemente anche Martina. Non rispondeva a nessuno dei miei messaggi o chiamate dal giorno della festa. Sicuramente neanche lei voleva più niente a che fare con me. E la capivo. Da un lato, quello che non si stava disperando, era meglio così. Forse ero un'influenza negativa nella vita degli altri. Forse non ero destinata ad avere affetto. Forse era tutto una punizione del karma, ma non riuscivo a capire quale azione potesse mai scaturire una serie di disgrazie del genere.

Alzai il cappuccio della felpa e misi lo zaino sulle spalle. Dovevo andarmene. Non sarei mai rimasta in un luogo dove non ero la benvenuta. Non avevo idea di dove sarei andata, ma ogni posto era migliore, almeno sarei riuscita a respirare. I miei sbuffi di rabbia molto probabilmente erano udibili fino al primo piano e quasi lasciavo tracce di fumo. Ero orgogliosa di me quando riuscivo a reagire in un modo meno nocivo per me. Angela mi guardò preoccupata quando mi avvicinai all'uscita e mi rincorse. -Margot, aspetti. Vuole una camomilla? Vuole parlare?- aveva un tono caldo e materno ma riuscivo a percepire che fosse stata istruita a dovere. Chissà cosa le aveva detto mio padre. La ignorai e le riservai uno sguardo duro. La mia furia non conosceva limiti in quei momenti. -Aspetta, non chiudere!- una voce estranea mi fermó dal premere i tasti dell'ascensore. Un ragazzo alto e con una chioma bionda e lunga prese posto vicino a me nell'ascensore con disinvoltura. Era raggiante. Sorrideva, mostrando un pearcing sulla lingua, ed emanava raggi solari. Che odio. -Ciao mamma!- mandò un bacio volante ad Angela e le porte si chiusero mentre io collegavo i fatti tra loro. Era il figlio di Angela? Non si assomigliavano per niente. Mi misi di faccia alla parete lucida dell' ascensore e chiusi gli occhi. Dovevo uscire da lì urgentemente. -Sei Margot, giusto? L'altra figlia di Edoardo.- la sua voce era invadente e mi fece aprire gli occhi. Non risposi perché ero ingrado solo di urlare. Lui fece una risatina tra sé e sé e io allargai le narici. -Eppure mi avevano detto che tu non eri snob, ma si sbagliavano.- la voce non conteneva cattiveria, era più una sfida. Quelle parole calcolate ebbero l'effetto desiderato perché non riuscì a starmene zitta. -Non potevi beccarmi in un giorno peggiore, te lo giuro.- dissi tra i denti. Io per prima ero sorpresa della mia voce sofferente. Lui forse non si aspettava di sentirmi effettivamente rispondere, lo colsi impreparato. -Sappi solo che ti rispetto. Qualcuno doveva pur farlo. È una troia di prima categoria.- era esattamente una settimana da quando successe il putiferio della festa, seguito dalla fine della mia relazione e al litigio con mio padre, accaduto quel giorno. E quella era la prima volta che qualcuno mi rivolgeva delle belle parole riguardo quello che inizia a definire come "l'incidente."
Gli rivolsi un piccolo sorriso.

-Mi stai seguendo?- vagavo per le strade di Milano senza meta e quel ragazzo mi teneva il passo. Mi stava irritando con il suo modo di camminare: come se non avesse alcun problema mentre i suoi capelli che lucicavano sotto il sole. -Ti va un caffè?- mi fermai di colpo. -Spiegami cosa cazzo vuoi.- ero stanca di tutti i suoi giochi. Avevo altro a cui pensare. -Un caffè?- era un fottutto clown, ma non faceva ridere, no, mi faceva ribbolire il sangue. -Allora vai a prendertelo e lasciami stare.- definì bene parola per parola. Lui sorrideva di fronte ai miei occhi rossi e viso arrabbiato. -Così poco basta per ridurti così, eh?- era esasperato, come se quello infastidito fosse lui. -E quindi che hai menato tua sorella? Tra fratelli e normale e poi quella è una sronza. E quindi se ti sei drogata? Pensi che sei l'unica? Ti fai troppi problemi.- stava parlando a voce troppo alta, la gente lo guardava e io mi nascondevo nella mia felpa. Era facile per lui parlare e dire quelle cose senza sapere come era vivere in quella situazione e senza essere a conoscenza delle conseguenze. -Stai zitto cazzo! Sei veramente così miserabile da non avere nessun altro con cui stare?- dissi con tutto il veleno che avevo in corpo. La sua reazione mi fece capire che sì, avevo ragione, ma poi arrivò anche la realizzazione che io non ero tanto diversa da lui.

-Vabene che il caffè non ti farà stare meglio, ma credi che essere vista con una birra in mano aggiusterà qualcosa?- in quei venti minuti che avevamo trascorso insieme si prese la libertà di dare consigli non richiesti. Mi dispiaceva conoscerlo mentre non ero in me, ero antipatica in quel momento, lo ammetto, una stronza si può dire.
-E io ero certa al mille per mille che quella fosse lì per lui. Credimi che io certe cose le capisco. E le ho fatto pagare tutto. Le ho spaccatto quella faccia di cazzo e avrei continuato se...- avevo il bordo del tavolino del bar tra le mani e lo stringevo con forza. -Wow Hulk calmati.- Gigi rideva di me e delle mie espressioni. Diceva che era come guardare un cartone animato. Che facevo morire dal ridere. A passare del tempo con lui riuscì a catturare qualche tratto della madre. Non era poi così male. -Secondo me sei stata una bambina mocciosa.- era schietto con me ed era ciò di cui avevo bisogno. Non volevo essere presa in giro con la scusa dell'essere protetta. Non più. -Attento alle parole.- lo avvertì. Lo conoscevo comunque da un'oretta. -Sai che devi fare, devi vendicarti di tutti. Se stai male loro ci godono e pensano di aver vinto. La devi mettere in culo a tutti.- e quelle furono le parole che mi sollevarono. Fanculo a tutti, cazzo. Margot non avrebbe preso più merda da nessuno. Se pensavano che ero una stronza, tanto valeva diventarlo.

Il giorno dopo ero su un aereo, con direzione la nuova me. Anzi, la vera me. Non mi sarei più nascosta dietro nessuno, specie le mie maschere.

Dovevo dire che essere una figlia di papà aveva i suoi preggi. Il mio appartamento era piccolo, ma la vista senza orizzonti, su New York. Avevo deciso di allontarmi da tutta quell'atmosfera nociva per la mia salute mentale. Dovevo poter pensare e respirare tranquillamente, o almeno provarci. Era difficile svegliarsi con la consapevolezza che in un'altro Stato ti stavano sparlando, era difficile addormentasi con la mente piena di lui. Chissà se mi pensava, chissà con chi passava le notti, chissà e chissà. Aveva pubblicato una nuova canzone e la ascoltai a qualche minuto dopo l'uscita. Mi vergognavo ad ammettere che non riuscivo a dimenticarlo. Ma dovevo dare tempo al tempo.

Era una sera movimentata. O almeno così sembrava dai rumori che provenivano da fuori. Le luci lì non si stancavano mai, lo stesso con i passi delle persone. Era un mondo tutto da scoprire e gustarsi con gli occhi. Ero felice di essere lì. Stavo lavorando su me stessa e nient'altro aveva più priorità. Avevo cenato con del cibo d'asporto, specialità locale, ed ero avvolta nelle mie coperte, con la testa su tanti cuscini in piume. In sottofondo una canzone R&B che mi cullava. Stavo vedendo i social: le vite di tutti andavano avanti anche senza di me. E questo mi fece pensare. Poi vidi una foto che non dovevo vedere. E anche quello mi fece pensare. Il corpo di Andrea e una ragazza che lo accarezzava. Non era più impegnato con me, ma questo non voleva certamente significare che in così poco tempo doveva andare avanti. Mi sembrava una mancanza di rispetto nei miei confronti. In primo luogo una mancanza di sentimenti, perché non si volatizano dopo così poco tempo. Ma fui grata di vederla, nonostante mi creò un buco allo stomaco. Aumentava la determinazione che mi aveva spinta dall'altra parte del mondo. Dovevo sostituire l'amore con l'odio e lui mi stava aiutando.

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Ho scritto l'inizio di questo capitolo tre volte in tre modi differenti. Ma eccomi.

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