Capitolo 8

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La luce che entrava dalla grande finestra mi svegliò, e quando aprii gli occhi trasalii. Mi misi seduta di scatto, e mi tenni con il braccio il lenzuolo a coprirmi il petto, quando realizzai di essere nuda sotto delle coperte che non erano le mie. Mi picchiai la fronte con la mano, quando mi girai alla mia destra e lo vidi, sdraiato a pancia in su accanto a me.

Il suo petto si alzava e abbassava lentamente, e sembrava dormire beato come un bambino. La sua pelle ambrata faceva contrasto con il bianco delle lenzuola, così come i suoi capelli color pece sembravano una macchia d'inchiostro sul cuscino.

In quel momento, mentre lo guardavo, i ricordi della notte precedente mi investirono come un'onda.
Quelle mani che ora ricadevano aperte sulle lenzuola, mi avevano percorso il corpo, tracciato la pelle, dandomi come delle scosse nei miei punti più deboli.
Le sue labbra che di solito mi sorridevano in quel modo diabolico e malizioso, e che in quel momento erano schiuse, mi avevano baciato delicatamente l'interno coscia, ed avevano danzato con le mie per un tempo infinito senza stancarsi mai. I suoi capelli setosi e splendentemente neri, che ora erano disordinati, li avevo tenuti in pugno quando lui era diventato allo stesso tempo quello che mi stava facendo cadere in un vortice, e l'unico a cui potevo aggrapparmi.
Gli occhi, che in quel momento non potevo vedere, erano diventati lucciole che illuminavano il buio della stanza, e che mi guardavano come non pensavo avrebbero fatto mai.
Per la prima volta mi ero accorta che Marco non mi guardava solo come se fossi la cosa più odiosa su questa Terra, ma anche come quella desiderava di più.

Smisi di fissarlo, e spostai il mio sguardo verso la finestra, da cui potevo scorgere uno spiraglio di sole romano, nel freddo dicembre. Mi tirai il lenzuolo fino sopra il mento, dato che stavo morendo di freddo.

Cosa avrei dovuto fare? Rivestirmi e andarmene come facevano nei film? Non sarebbe stata una cattiva idea, anche se non era di certo una cosa da me.
In realtà non lo era nemmeno andare a letto con un pallone gonfiato, ma quella era un'altra storia. Andarmene prima che si svegliasse non sarebbe stato così sbagliato, ma dipendeva tutto dal significato di quella notte.
Insomma, che avevamo fatto? Ci eravamo lasciati andare, arresi l'uno all'altra, abbandonati a qualcosa che non sapevamo nemmeno avessimo dentro. Ma tutte quelle sensazioni strane e contorte che avevo provato io, forse Marco non le aveva avute. Forse per lui ero l'ennesima sua conquista, come la figurina nuova nell'album dei calciatori. Non sapevo come sentirmi, in quel momento.

Insomma, io sapevo di valere, e di non essere una figurina, un oggetto, o un trofeo. Non ero un pezzo della sua collezione. Era la cosa che gli avevo ripetuto sin da quando iniziò a fare battute del fatto che mi avesse vista nuda dal primo giorno, e bla bla bla. Io non sarei stata una delle sue bamboline. Ed era proprio qui, però, che stava il problema.

Perché io, sapendo di non voler fare la fine di tutte le altre, ci ero andata a letto? Perché avevo ceduto? Perché ero entrata volontariamente nella tana del lupo? Scavai nella miei ricordi, e fu tutto ancora più confuso. Era come se il buio di quella notte mi avesse illuminato la mente, e il cuore. Per la prima volta mi resi conto di quanto mi piacessero i suoi muscoli, la sua pelle ambrata e le sue spalle larghe. Di quanto avrei voluto stringere tra le mie mani quei capelli, ancora e ancora. Realizzai quanto avessi fatto finta di odiare quel sorriso arrogante, per ignorare il desiderio delle sue labbra sulle mie. Di sentire nella mia bocca il suo sapore di menta, dovuto alle gomme da masticare e le caramelle che aveva sempre in bocca.
Mi resi conto di come avessi cercato di odiare il suo profumo di Bulgari, ripetendo a me stessa che fosse assurdo spendere così tanti soldi per un profumo. In realtà quel profumo mi piaceva, soprattutto quando Marco se ne andava ma quell'essenza restava impressa nei cuscini del divano dopo che vi si fosse addormentato sopra.

E soprattutto di come avessi cercato, in tutto quel tempo, di trovare una scusa per andargli contro, per criticarlo, per pensare che fosse nel torto, che avesse fatto qualcosa di male, che agisse sempre in mala fede. Lui faceva la sua parte, ma forse io avevo creato nella mia testa un Marco ancora più Marco, raddoppiando ciò che mi dava fastidio di lui, e quasi eliminando tutto il bello che ci fosse in lui.
Forse mi ero costruita tutto questo, mi ero barricata dietro quest'odio, perché fin dal primo momento, avevo capito che mi avrebbe stravolta.
Che avrebbe preso la mia vita e l'avrebbe scossa come un terremoto. Sapevo che sarebbe potuto essere una calamita per me, come io per lui. E questo genere di situazioni, per me, era sinonimo di pericolo. Di sofferenza. Di distruzione.

Ad maioraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora