Capitolo 11

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Mi alzai dalla sedia lentamente, come se avessi dimenticato come usare le gambe. Sfregai le mani sudate per l'agitazione sui pantaloni, e sorrisi come un ebete finché non fui fuori dall'aula.
Tirai un sospiro di sollievo, e percorsi il corridoio sempre con quel sorriso vittorioso.

Presi subito il telefono per mandare un messaggio a mia madre. Ogni volta che davo un esame, lei era la prima a sapere il voto. Facevamo così da quando ero al liceo: rischiavo di essere beccata con il cellulare in mano, pur di farle sapere che fosse andato tutto bene. Non c'era stata un'interrogazione o una verifica in cui avessi preso un voto basso, e all'università, per fortuna, la storia si stava ripetendo.

Uscii dall'edificio, e girai l'angolo per avviarmi verso la metropolitana, ma un fischio attirò la mia attenzione. Mi guardai intorno, ma non c'era nessuno. Aggrottai la fronte, pensando di essermelo sognato, ma poi lo sentii di nuovo. Mi voltai un'altra volta e fidi un uomo tutto vestito di nero che mi fissava.

Indietreggiai, come spaventata e
diffidente, ma questo mi fece cenno di avvicinarmi. Prima di farlo, allungai il collo in avanti e strinsi gli occhi, per cercare di capire chi fosse quell'individuo. Poi, dal modo di gesticolare come un matto, lo riconobbi.
Attraversai la strada per raggiungerlo, iniziando a ridere come una matta.

Al tempo stesso mi sentivo un po' strana, non mi aspettavo che Marco mi avesse fatto una sorpresa. In effetti aveva detto di voler trasgredire le sue stesse regole, ed era praticamente passata una settimana da quella sera nel suo ufficio. Ovviamente eravamo rimasti io e Marco, non ci eravamo mica trasformati nella coppietta felice. Ma forse stavamo andando bene. Insolitamente bene.

– Che diavolo ci fai qui?! – risi, togliendogli il cappello.

– Ciao anche a te, Emma. Sono molto felice che ti sia piaciuta la sorpresa. – mormorò, riprendendosi il cappello con uno strattone. Io risi ancora di più.

– Perché sei vestito così? – gli chiesi di nuovo.

– Beh, visto che tutte le volte che sono venuto qui le tue compagne mi hanno letteralmente assalito, voler rimanere in incognito stavolta. Anche perché ti saresti accorta di me da un miglio per colpa dei loro strilletti, e non sarebbe stata più una sorpresa. – fece spallucce.

– Hai ragione. Sei stato bravo. Ma... da dove li hai tirati fuori questi vestiti? – gli chiesi, guardandolo per bene.

Indossava una tuta nera scolorita della Nike, un piumino fin troppo semplice secondo i suoi standard, e le sneakers nuove di zecca facevano contrasto con tutto il resto.

– Emmh... probabilmente queste cose le mettevo al liceo. Non so nemmeno perché io me le sia portate da Milano. – mormorò, guardandosi intorno con fare ansioso. Lo presi a braccetto, capendo che volesse andarsene da lì.

– Non preoccuparti, gli occhiali da sole, che sono Gucci da quel che vedo, compensano tutto quanto. – alzai gli occhi al cielo, ridacchiando.

Sapeva quanto mi piacesse il suo guardaroba, ma sapeva anche quanto odiassi l'esagerato prezzo che aveva ogni cosa che Marco indossasse. Insomma, che senso aveva pagare un solo paio di calzini dieci euro, perché è marchiato Ralph Lauren? Quando gli facevo queste domande, mi rispondeva che avrei dovuto cambiare mentalità ed entrare meglio nella parte, se avessi voluto fare parte del mondo in cui ormai mi ero addentrata.
Io potevo anche sponsorizzare sui social i vestiti bellissimi e costosissimi di Dior, ma se li avessi posseduti sul serio non avrei saputo che farmene.
Per me avere stile non significava avere il portafoglio pieno e quindi potersi permettere dei vestiti di una certa classe. Ero fermamente convinta che lo stile stava nell'abbinare le cose tra loro, e saperle portare in un certo modo. Marco, per esempio, sembrava una statua della Fontana di Trevi anche vestito in quel modo. Ovviamente quel pensiero me lo sarei tenuto per me.

Ad maioraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora