Capitolo 20

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Io e il pallone gonfiato rimanemmo per qualche secondo immobili di fronte alla porta chiusa della camera di Marta.

Posai un attimo lo sguardo sul moro, poi corsi a buttarmi sul divano.
Mi scese una lacrima dall'occhio sinistro, che asciugai immediatamente.
Mi misi seduta con i gomiti poggiati sulle ginocchia, e la testa fra le mani.

Dopo un minuto sentii il divano abbassarsi, segno che Marco si fosse seduto vicino a me. Restò in silenzio per un po', ed io feci lo stesso.
Oltre a quell'orribile situazione con Marta, tra me e lui c'era un'aria strana, visto che la discussione del giorno prima aveva messo un punto a quello che stavamo vivendo da settimane.

– Tu stai bene? – mi chiese ad un tratto, ed io tirai la testa fuori del mio nascondiglio.

Lo guardai negli occhi prima di rispondere, e lo vidi vacillare.
Era incerto, tutto nel suo corpo sembrava esserlo. Era come se non sapesse più chi fossimo io e lui, cosa fossimo.
Non sapeva se avesse potuto toccarmi o meno, se avesse dovuto lasciare almeno un po' di spazio tra il suo corpo e il mio, sul divano. Era impacciato, cosa molto strana e rara da parte di Marco.

– Perché? – alla fine risposi alla sua domanda con un'altra domanda.
Lo facevo sempre quando non volevo dire la verità, o non sapevo la risposta.

– È ovvio che te lo chieda. Guarda cosa è appena successo. – disse lui ovvio, facendo spallucce. Io spostai lo sguardo sulla televisione spenta davanti a noi.

– Non ho fatto niente. – pensai ad alta voce, incrociando le gambe sul divano. Marco mi si avvicinò di poco, girandosi con il busto verso di me, come per farmi capire che avessi tutta la sua attenzione.

– Quando li ho visti in macchina insieme... non ho fatto niente. Ho chiamato te, e basta. Non sono riuscita a fare un passo di più, a tirare fuori Marta dalla macchina. Io non ho mai avuto paura in vita mia, Marco. Non so cosa mi sia successo in quel momento. – dissi on voce flebile.

Lo stavo facendo, anche se avessi messo un punto a noi due. Mi stavo aprendo con lui, stavo oltrepassando i miei stessi limiti, e non per lui. Non perché volessi fargli pena, non perché volessi che mi abbracciasse e mi consolasse. Ma avevo bisogno di parlare con lui di come mi sentivo, perché altrimenti sarei impazzita. Marco aprì la bocca per parlare, ma io lo interruppi.

– E se non fossi arrivato in tempo? E se Tommaso avesse... - la voce mi si strozzò a metà frase, e nascosi di nuovo la faccia tra le mani.

– Emma, no. Non farlo. Non darti la colpa. Non è una colpa avere paura. Tommaso è pericoloso, e avrebbe potuto fare del male anche... - aprì le mani verso di me come per toccarmi, per accarezzarmi, ma esse si fermarono a mezz'aria.

– Oh, avanti. Non puoi parlarmi di paura, non tu. Anche tu odi avere paura, anche tu fai finta di non averla. – lo guardai con le sopracciglia alzate, l'espressione che lui chiamava da "maestrina", "saputella", "so tutto io", e chi più ne ha più ne metta. Ma avevo ragione, anche lui lo sapeva in cuor suo.

Mi passarono nella mente veri ricordi dei mesi precedenti, e vidi tutti i sorrisi e i ghigni che Marco mi aveva fatto per nascondere la sua paura, la sua preoccupazione.
Quando lo chiamava il padre, quando parlava dell'azienda, quando ascoltava le mie teorie sul misterioso Tommaso.
Era sempre stato preoccupato per qualcosa, tutto quel tempo, e aveva fatto finta di essere il solito bell'imbusto, ricco e spavaldo.

– Beh, io oggi l'ho avuta. Lo ammetto senza problemi. Ho avuto paura per tutte e due. – disse sincero, e non potei non accennare un sorriso a quelle parole.

Si era preoccupato anche per me, ed io invece avevo creduto fino a quel momento che non gli importasse. La mia confusione però era comprensibile, visto che quello che avevo davanti in quel momento non era lo stesso Marco che mi aveva urlato in faccia la sera prima. Il problema era sempre lo stesso.

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