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Quando eravamo tutti nel furgone, pronti per tornare indietro, ricordo il walkie talkie di Oliver sgranare e una voce metallica parlare. Diceva che stavano tutti bene. Poco dopo capì che si riferiva al diversivo e a chi l'aveva causato. Avevo ancora il respiro frenetico e pesante e dovevo recuperare molto più ossigeno di quanto pensassi. Ma poco importava come stavo, li avevo comunque salvati. Ci avevo salvati. È servito abbastanza per uscire e correre via, verso lo strip club e poi ai furgoni. Pur essendo dentro, traballando un po' per le buche che prendeva il mezzo, continuavo a tremare e ad avere i nervi a fior di pelle. Ero in tensione. Avevo tutti i sensi in allerta, pronti, ma mi sembrava tutto tranquillo. Lo era e io ero solo paranoica. Temevo che qualcuno ci tamponasse e ci rapisse o ci sparasse direttamente. Ma non è successo nulla. Tutto fermo, normale. Era silenzioso. Tutti lo sguardo rivolto verso il basso, con i muscoli rilassati, riprendendo un po' di forze, mentre Ryan guidava. Oliver è venuto con noi, al ritorno, forse per parlare con Robert. Tuttavia, avevo ancora due castagne fisse sulla mia faccia, insistenti, scavandomi a fondo, formando buche e buche. Buche vuote. Buche perfette per metterci le bare. Avrei voluto darmi uno schiaffo per ciò che avevo pensato. Viaggiano proprio rose e fiori dentro la mia mente, eh? In quella specie di infermeria della casa in cui provo a pulire una piccola ferita che mi ero fatta e che neanche mi ero accorta di avere, ripenso a quella voce maschile. Era vicina, ma al tempo stesso lontana. Mi sforzavo non so quanto per capire di chi era e lo sto facendo ancora. Sono sicurissima di averla sentita prima, ma non collego il viso. Mi sorprendo per quanti ricordi la mia mente abbia rimosso. Pochissimi, si contano su una mano, riescono a riaffiorare. Mi manda in bestia tutto ciò. Rimetto tutto quello che ho usato dentro ad una scatolina trasparente, la richiudo e mi giro per metterla dentro ad un cassetto. Abbasso la manica, coprendo il punto del braccio coperto da una piccola garza bianca. È davvero allucinante la somiglianza di colori di questa e la mia pelle. Mi fa quasi sorridere. Quando finalmente alzo lo sguardo per uscire da questa stanza che ho odiato sin dal primo giorno, vedo Thomas appoggiato allo stipite della porta che mi guarda.

- Oh...ehm, ciao. – borbotto, avanzando di poco.

- È grave? – indica il punto della ferita, sotto la felpa.

- No, no. È un taglietto. Non sapevo neanche di averlo. – provo a sorridere, forse per tranquillizzare me più che la situazione. Ma, inaspettatamente, appare un velo di quel che sembra un sorriso furbo. Annuisce, ma non si sposta. Così, anche io.

- E la voce? – chiede, guardando il collo. In realtà, neanche io ne sono certa. Nel senso, sto bene. Non sento dolore o cose simili.

- Credo che stia bene. Non mi fa male, quindi...- lascio la frase in sospeso, che galleggia fra di noi, come una bolla. – Tu, invece? Stai bene? –

- Niente che non abbia già provato. – risponde e non riesco a fare altro che annuire. Non mi tranquillizza molto ciò che ha detto, ma mi sembra vispo come sempre. Ha ancora qualche alone rosso-viola che gli colora il viso, ma sta già prendendo colore. Il suo movimento della testa mi fa evaporare i pensieri. Finalmente, si sposta e va solo lui sa, con me dietro. L'enorme salone che attraversiamo è silenzioso e vuoto. Per un attimo, pensavo andassimo da Robert, nel suo studio, di fronte a noi, ma quando Thomas prende le scale e si dirige verso le camere, mi ricredo.

Salgo anche io gli scalini, grata per essermi cambiata le scarpe. Non potevo stare un altro momento con quegli stivali, con quel tacco che non mi faceva altro che male. Le scarpe da tennis sono molto meglio e mi sento leggera mentre camminiamo verso la porta della stanza di Thomas. La confusione si fa ancora più chiara sul mio viso mentre la apre ed entra. Non appena la oltrepasso, noto che la stanza è leggermente in disordine. Alcuni suoi vestiti sono buttati sul letto e qualcuno tocca anche terra, mentre la scrivania è piena zeppa di oggetti e fogli. Scava tra quest'ultimi, sfogliandoli, prendendoli e leggendoli, per poi lasciarli fluttuare finché non arrivano nel pavimento. Presa da una grande curiosità, mi piego e ne afferro uno, leggendo ciò che c'è scritto. In alto, c'è un simbolo che ho già visto: un triangolo diviso in tre parti, circondato il tutto da un cerchio con delle lettere greche sui tre vertici. Mi scorre un brivido lungo le braccia ma tengo ancora stretto il foglio. Parla di scambi di qualche merce, ci sono scritti orari e nomi di città o paesi che non riconosco. Ci sono informazioni sul modo in cui trasportarli e, scorrendo, noto che alla fine c'è una firma ondulata e grande. Sopra ad essa, la scritta "Confraternita dei Cacciatori". Allora quel simbolo è il loro logo. Ecco perché Thomas mi aveva nascosto, quando eravamo nell'autobus, ed era così teso. Guardo la sua schiena, contratta, ringraziandolo mentalmente. Di scatto si tira su e si gira verso di me, con gli occhi su un raccoglitore giallognolo. Mi guarda e io mi avvicino. Quando sono al suo fianco, mi concentro sui fogli che prima guardava.

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