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Passammo il resto delle ore a pensare a quella frase. Al possibile significato, a cosa si possa nascondere dietro. Non avrei mai immaginato che sarebbe uscita fuori una cosa del genere. Mi aspettavo un qualcosa di tecnico o subito istintivo. Non sappiamo neanche chi ce l'ha dato, il biglietto. Avrei un ipotesi, in realtà, ma non saprei dire se la condivide anche Thomas. Finché non decifriamo quel messaggio, le nostre teorie rimarranno tali. Solo fumo. Per quante volte l'ho letto e ho cercato di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, la mia testa si appesantiva e gli occhi iniziavano a bruciarmi. Ero distrutta. E stanca. Tutta questa situazione mi abbatte, con un impeto mai sentito prima. Il corpo sembra non avere ossa che lo sorreggano e ogni volta che c'è occasione si accascia sulla sedia o sul letto e non si muove da lì per minuti abbondanti. Thomas è più vispo, più reattivo. È stato molto tempo davanti al computer, facendo un sacco di ricerche, che, però, non hanno portato a niente. Sforzi inutili. E ciò ci deprime. Non so cosa mi costringe ad andare avanti, a continuare a cercare. Non credo sia speranza. Essa si è dissolta in quella casa abbandonata, davanti ai due ologrammi.

A cena, non abbiamo aperto bocca sull'accaduto. Mentre gli altri raccontavano le loro vicende pomeridiane, io e Thomas eravamo vaghi e taciturni. Lo sguardo basso e la bocca che masticava. Niente di più. Niente di meno. Sembravamo macchine programmate a fare solo quelle azioni. Quelle poche volte che alzavo lo sguardo per sembrare partecipe, incontravo di occhi anziani di Robert, guardinghi, curiosi, cosa che mi faceva cambiare visuale. Forse percepiva qualcosa, ma non pareva così convinto. Volevo sdraiarmi nel letto e rimanerci per l'eternità. Vivere in un mondo sconosciuto fatto di sogni e riposo, senza ostacoli, senza problemi. Era impossibile.

Quando siamo risaliti nella nostra camera, non riuscivo a guardare il biglietto. Rabbrividivo e mi sforzavo di guardare altro. Il vento colpiva con voga le finestre, come uno spirito che provava ad entrare con tutte le sue forze. Una presenza che lanciava pugni infiniti al vetro. Il fischio gelido era l'unico suono che riuscivo a sentire, l'unica cantilena.

Mi ricorda il manicomio. L'aria faceva sbattere di continuo le persiane e il legno poco stabile delle finestre. Molte notti non riuscivo a dormire, ma nessuno sembrava farci caso. Mentre fisso il vetro che dà al buio della notte, immagino il panorama che vedevo nella mia camera del manicomio. Le pareti bianco sporco. I pochi mobili che mi avevano dato. I miei oggetti sparsi qua e là e l'entrata che dava al bagno. Penso al mio grembiule, ormai diventato una seconda pelle. La gelida e malsana aria che respiravo ogni giorno, il tremolio del corpo che non riuscivo mai a scrollarmi di dosso. Il terrore di morire lì dentro che mi perseguitava sempre. I miei incubi che bussavano alla porta ogni notte. La solitudine, il mio unico compagno. E le voci, quelle urla che facevano trepidare il cervello, che mi annebbiavano la mente. I dubbi, i ricordi.

- Crys. -

La sua voce impastata dalla stanchezza mi fa ritornare alla realtà. Tutti i pensieri evaporano come fumo e le pareti diventano quelle della camera di Thomas. Tutto normale. Risvegliandomi completamente, mi giro verso di lui, che mi studia con occhi contornati da un fino velo viola. Una domanda silenziosa, che arieggia come una nuvola sopra le nostre teste.

- Sto bene. Sono solo stanca. - sorrido, liberando la mente. Incrocio le gambe, adagiandomi bene sul materasso. Thomas, stranamente, mi affianca, scompigliandosi con un movimento i capelli. - Stavo pensando al manicomio. - rivelo, giocherellando con il lembo delle maniche della felpa. Di sbieco, lo vedo annuire, continuando a osservarmi. Tra noi, centimetri di silenzio, una parete taciturna.

- Sai, quando io e Daisy dovevamo cercarti, non immaginavamo fossi in un manicomio. - esordisce. - Non era calcolato, quel luogo. Ma, quando siamo entrati e abbiamo dato un'occhiata più precisa al posto e ai lavoratori, abbiamo capito subito il motivo. -

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