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Di fuori le foglie cadono. C'è tanto vento. Il rumore delle serrande, ormai vecchie, che rimbalzano nella finestra predomina gli altri suoni. E' fastidioso. Sbuffo e mi alzo, diretta alla finestra. La sistemo e quel rumore non si sente più. La mia stanza è la più spaziosa del piano. Ma è l'unica bianca, come un cadavere. Come me. Non ho mai avuto una pelle abbronzata come mia madre, sono sempre stata una bambola di porcellana. E odio quando anche gli altri pensino che lo sia anche internamente. Mi da sui nervi. Mi trattano davvero come una "bambola", come una bambina. Perché? Semplice, per via del mio orribile, disastroso, buio passato.

Sono orfana. I miei genitori sono morti. Sono stati uccisi da un serial killer di quel tempo. Sono morti infilzati da un oggetto che la mia mente spera di dimenticare. Avevo dieci anni. E li ho visti morire davanti a me, senza fare o dire niente. Invece sono scappata, mi sono nascosta. Bella fifona che ero, prima.

E per questo credono che io sia timida, fragile. Che ho paura. E sai che vi dico? E' ovvio che lo sono. Ma è ovvio anche che non voglio esserlo. Voglio essere forte, con la testa alta, sempre. E devo dire che sto migliorando. Sono fiera di me stessa. E' quasi ora di cena e dovrebbe venire Cami, la mia infermiera privata. Bussano alla porta. Oh, eccola.

- E' ora della medicina! - mi avvisa mentre entra.

- Ciao anche a te Cami -, la saluto e lei mi sorride.

E' una donna gentile con me, ma quando un suo compagno di lavoro la insulta o la prende di mira, diventa una furia. E' sempre stata sfortunata con l'amore, ma lei non si arrende. Mi siedo sul letto e bevo il bicchierino con l'acqua e la pillola, mentre lei prepara la siringa. Tiro su la manica del camice a pois fino al gomito e l'ago si infilza nel braccio, lasciando libero il liquido all'interno. Non mi fa male. Non più. Sempre la stessa routine. Sempre la stessa medicina per calmarmi. Sempre le stesse azioni da anni.
Otto anni. Otto anni di pura noia e di pura solitudine dentro questo manicomio.

*

Il manicomio è troppo grande per ospitarle pochi ragazzi. Sono sempre stata controllata ogni giorno. Qui dentro ci sono veramente delle persone con seri problemi mentali. Io li avevo, da piccola, perché non sapevo che cosa mi accadeva. Che cos'ero. Ma ora mi sono "rilassata". Certo, rimangono sempre quegli attimi di pazzia, ma posso controllarli tranquillamente.
Però devo ancora capire il motivo di quegli attimi. Quando avvengono è doloroso, tantissimo. Mi scoppia la testa.

Ora sto andando a mangiare, nella mensa del piano più "spaventoso" del carcere. Il piano A. Qui ci sono le persone psicopatiche seriamente, quelle che hanno provato a suicidarsi e che, tutt'ora, continuano a fare (o meglio, ci provano), quelle che credono di volare e si buttano da qualsiasi punto alto, quelle che hanno ucciso. Compresa me. Si, io ho ucciso. A 13 anni, precisamente. Quello è stato il momento più brutto, più doloroso. Il giorno del mio primo omicidio. Ero totalmente andata, che sono uscita di casa dei miei genitori adottivi e ho camminato - se così si può dire - per una bruttissima via. Ho ucciso un ladro. Mi stava per rubare quel poco che mi ero portata dietro, dopo avermi squadrata maliziosamente. Nessuno mi deve né parlare né toccare quando i dolori prendono il sopravvento in me. E non sto parlando del ciclo, questo è mille volte peggio. Dopo questo avvenimento mi hanno mandata qui dentro, senza aver mai avuto una dannatissima visita. Neanche una telefonata. Solitudine totale. Come se io non avessi mai avuto genitori. Come se i miei genitori adottivi non avessero mai avuto una figlia. E mi sta bene, stranamente mi sta bene.
La sala è già piena. Ci sono dottori, ragazzi, professori che mangiano e parlano del più e del meno.
Tutti parlano con tutti. Tutti sorridono con tutti. Tutti, che hanno paura di me. Tutti, che non mi parlano.
Tutti, che io conosco ma allo stesso tempo non conosco. Tutti, che conoscono me ma allo stesso tempo non mi conoscono. Appena entro, gli urli diventano sussurri. Altri continuano a parlare degli affari loro, alcuni parlano di me. Di cosa mi è accaduto. Che cosa ho fatto. Di che classifica faccio parte. Del mio corpo. Le frasi ormai di vecchio stile che ho sentito qui dentro su di me è "Oh, guarda, sembra un fantasma!" o "Ma è un cadavere vivente?". Essedo abituata, non mi fa più male come i primi giorni. Perché poi, come se non bastasse, ci si mettono anche i miei capelli color del sangue. Ma oramai non gli do più tanto peso. Ormai sono abituata. Ormai non mi importa. Si, come no.
I "Bianchi" avevano detto, appena arrivata, che ero l'unica persona che aveva avuto questo genere di faccenda. Mi consideravano un cambiamento, per loro, per il loro lavoro. Dicono che nessuno qui dentro a mai avuto questi grandi urli o questi sbalzi d'umore e dolore. Non è sonnambulismo, hanno detto.
Non sono incubi notturni, hanno detto.
Non so che cosa specificamente ho, ancora. So solo una minima parte, ma devo scoprirne il motivo. Cami mi osserva, con lo sguardo pieno di compassione. Non voglio che provi pena per me, mi fa sentire stupida, debole. Come qualsiasi altra persona al mondo. Ma io non sono una qualsiasi persona. In un tavolo, che non ho mai dato peso prima d'ora, tutti gli occhi sono su di me. Infilzati sulla mia pelle. E uno mi sta studiando. Controllando oserei dire. Un ragazzo. Lo brucio con lo guardo e lui ghigna. Odioso. Stupido.

- Posso venire nel vostro tavolo...sai, a mangiare - dico, guardandomi intorno. Non voglio guardarla. Lei sorride, comprensiva.

- Mi dispiace, ma è solo per i "Bianchi", cara. Fa amicizia, ti servirà -, mi fa l'occhiolino e va via.

Lo so, sembro una bambina di cinque anni anzi che di diciotto, ma non è facile. Sono qui, appunto da otto anni e mai, mai ho parlato con qualcuno. Mai. Ma non perché sono una ragazza timida, anzi. O mi prendevano in giro per la mia carnagione, o per il colore dei capelli, o usavano il mio passato come arma contro di me. E quindi io, difendendomi da quelle iene e stanca di tutto, sono diventata un tutt'uno con il freddo, congelando con lo sguardo chiunque cercasse di prendermi per il culo.
Vado al bancone, prendo il vassoio e lo riempio di cibo. Nel weekend mangio tanto, troppo. Perché sono gli unici giorni in cui c'è qualcosa di decente da stuzzicare. Mi guardo intorno. Eccolo, un tavolo vuoto. Si sono spostati prima che decidessi di andare lì. Ogni giorno mi siedo a quel tavolo, perché più vicino a quello dei dottori. Mi siedo e inizio a mangiare. Un'ombra oscura il cibo. Il vassoio. Più ombre. Più persone.

- Crystal Roden. Ragazza orfana, con problemi molto seri. E' matta. E' psicopatica. E' un'assassina - cantilena una voce femminile.

Rose Jonas. La troia del piano A. E' qui per disturbi sessuali. Ovviamente. Era matta, letteralmente. Peggio degli stupratori. Ha fatto sesso con la sorella, contro la sua volontà, e rischiava anche la madre.
E' qui dentro da meno tempo di me, ma si sente comunque la "regina" del piano. Chi sarà il suo re?

- Che vuoi? - domando annoiata.

- Non mi parlare in questo modo, stupida. Sono un superiore, lo sai. Poi sai un'altra cosa? Sono venuti i miei a trovarmi. Vengono sempre dopotutto. Oh, scusa, stiamo parlando di me, che sbadata. Parliamo un po' di te. Ehm...vengono i tuoi a trovarti? Oh, giusto, sono morti - sputa, seguita dalle risatine della squadra.

La mia pazienza ha un limite, sai. Mannaggia a chi l'ha creata. La madre, dopo quello che ha fatto, viene a salutarla? E' più pazza di lei. Sto stritolando il tovagliolo, trasformandolo in una nube di pezzettini.

- Levati dalle palle, Rose. Lasciami in pace -, cambia subito espressione. Mette le mani sul tavolo, appoggiandosi ad esso.

- Li hai uccisi tu, assassina. Non ti devi arrabbiare con me, se la colpa è tua - ringhia.

Gli afferro i capelli fucsia e gli sbatto la testa sul tavolo. Subito dopo mi allontano, non volendo la vendetta di qualcuno. Gli ho rotto il naso da cui cola una scia di sangue. Il rumore ha attirato l'attenzione di tutti. Le guardie vanno subito sull'attenti. L'ho detto: la mia pazienza ha un limite.

Sto perdendo il controllo.
- Crystal! - urla Cami. La fulmino con lo sguardo, pentendomene subito dopo. Vado dritta nella mia camera, resistendo all'istinto omicida che scorre in me ed infuriata. Ma non sono la sola ad esserlo. Due occhi marroni sono fissati sulla mia schiena mentre cammino verso la stanza.

Il ragazzo di Rose. Il suo re. Il "Re" del piano A. Idioti.

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