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Non mi ero neanche resa conto che eravamo ai confini di quel lago; la mia mente era tra le nuvole e i miei occhi trovavano interessante il terreno. Mi dirigo verso esso e mi metto seduta. Lui aspetterà, non gli darà sicuramente fastidio se per qualche minuto rimango qui.

Lo sapevo, è come lo ricordavo. Perfino quel ponticello vecchio quanto questo bacino è ancora in piedi. In estate, mi tuffavo sempre da lì con mio padre nei paraggi per tenermi d'occhio. Facevamo i chilometri per nuotarci. Da piccola ero davvero ribelle, non riuscivo a stare ferma, soprattutto quando mi portavano qui: lo consideravo il mio posto segreto, consideravo tutto mio, persino i pesci che io stessa pescavo. Più in là, c'è una zona per pescatori ma noi non ci siamo mai andati, stavamo sempre in questo punto, sempre seduti in quella passerella ad aspettare che un pesce abboccasse l'ago. Pian piano iniziano a riemergere quei tutti quei ricordi che per otto anni ho cercato di tenerli nascosti, avevo pensato addirittura di distruggerli. Dovevo sbarazzarmene o mi sarei distrutta da sola. Non potevo continuare a vivere in quel manicomio con queste cicatrici che continuavano a bruciarmi fin dentro le ossa. Erano incontrollabili, alla fine li ho cacciati. Ma ora sono riapparsi, più decisi che mai. Scuoto la testa e mi alzo, passandomi la mano sul sedere per pulirmi. Osservo per l'ultima volta quella distesa trasparente d'acqua che mi ha  sin da piccola affascinata, con i suoi mille pesci e i mille alberi che lo circondano, lasciando sfuggire alle mie grinfie una lacrima. Torno sui miei passi, abbandonando per sempre quel luogo. Si sta facendo anche buio. Aumento il passo, riconoscendo quei pochi punti che mi permettono di continuare.

Non ci sono le luci accese. Non se ne sarà mica andato? Corro dentro, avendo paura che la risposta sia "sì". Vado in salotto. Non c'è. In bagno. Non c'è. In cucina. Non c'è. In una camera da letto. Non è neanche lì. Le mie mani iniziano a tremare, seguite dalle ginocchia. No, non può essersene andato, non così. O mio Dio, che farò ora? Sarà per quello che gli ho detto? O meglio, per quello che gli ho spronato a dirmi? Gli occhi sbarrati iniziano a percorrere tutto il corridoio, cercando di capire dove si fosse cacciato quel ragazzo misterioso. Forse anche lui è uscito...potrebbe essere fuori! Mi alzo subito in piedi, come una furia, e corro di fuori. La mia testa si gira in tutte le direzioni ma trovo solo buio. Bè, lui potrebbe benissimo confondersi, a volte penso che sia lui il buio. Qualcosa alla mia destra si muove.

- Thomas? - domando un po' impaurita.

- Riesci sempre a vedermi, eh? - ghigna.

Sbuffo e incrocio le braccia al petto, guardandolo infuriata.

- Dove ti eri cacciato? Mi hai...fatta preoccupare - sussurro l'ultima frase, imbarazzata. Ghigna di nuovo, ma questa volta mi guarda negli occhi. Lo so che ho detto una cosa alquanto stramba ma è vero: mi ha fatto preoccupare e anche tanto direi. Cammina verso l'entrata e io lo seguo. Accende la luce e a me per poco non mi prende un colpo. Prima non lo avevo neanche visto perché non avevo avuto l'idea di illuminare la casa. Il tavolo è pieno zeppo di oggetti, ma non cianfrusaglie. Oh, no. Ci sono due pistole con le cariche accanto a loro, molti coltelli tra cui uno enorme, uno sfollagente normale e uno elettrico. Roba da mettere i brividi.

- Che c-cos'è tutto q-questo? -

- Non vedi? Sono armi, dovresti saperlo -, mi guarda di sottecchi per poi ridere, di me.

- Non è colpa mia se non ho mai usato questo tipo di armi; ho avuto l'onore di sperimentare solo le lame. -, lo riprendo, trucidandolo con gli occhi. Idiota. Alza le mani in segno di arresa e io sorrido sotto i baffi. - Ma dove hai preso tutta questa roba? -

- I coltelli, qui dentro, mentre il restante, dai poliziotti e dalla loro auto. - risponde.

- Ci serve per fare qualcosa? Vuoi...-, mi precede.

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