Amore a prima vista

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Sabato mattina arrivò con il sole che filtrava dalle finestre, direttamente sulla mia faccia e la suoneria del cellulare che mi rimbombava nelle orecchie. Mi rigirai tra le coperte, lamentandomi per quel risveglio brusco, ma alla fine decisi di rispondere con un assonnato:"Pronto?"

"Tesoro mio!" esclamò una voce squillante dall'altro capo della linea, costringendomi ad allontanare un po' l'apparecchio dal mio viso.

"Ciao, mamma" risposi senza troppo entusiasmo, più per l'orario mattutino che per altro.

"Com'è andato il primo giorno di scuola?" chiese lei, lasciandomi per un momento sorpresa.

Mia madre era sempre stata una persona particolare, si esaltava per qualsiasi evento, ma il suo interesse durava poco e, avendo tante questioni di cui occuparsi e tante informazioni da tenere a mente, spesso si dimenticava quelle meno importanti. Io ero una di quelle, più di quanto avrei voluto ammettere.

"Mamma... è cominciata da due settimane ormai" spiegai con rassegnazione. Non mi rattristavo neanche più, ci avevo fatto l'abitudine e in fondo sapevo che ci teneva a me. Solo che non era brava a dimostrarlo.

"Oh cara, e ti stai trovando bene?"

"Certo, c'è Benny con me"

"Sono contenta. Tuo padre si fa sentire?"

"Ogni tanto" mi limitai a dire, restando sul vago, anche se la verità era che mi chiamava quasi tutte le sere, anche solo per augurarmi la buonanotte. Ma non volevo far pesare a mia madre le sue mancanze, sapevo che non lo faceva di proposito, perciò evitai di specificare.

Parlammo ancora qualche minuto e le raccontai del corso di cucina, così mi fece promettere che al suo ritorno le avrei dovuto cucinare una torta. Nella mia testa mi ripromisi che per allora sarei stata in grado di farlo. O almeno ci speravo.

Quando chiusi la chiamata, mi resi conto che era ancora presto ma, da momento che era una bella giornata, decisi di andare a fare un giro nella via sotto casa mia e passare anche in caffetteria a prendermi un dolcetto.

Indossai un paio di jeans, le scarpe da ginnastica bianche e una maglietta gialla a maniche corte, era primavera e faceva già piuttosto caldo. Mi pettinai i capelli, che mi arrivavano appena oltre le spalle, e lottai con la frangetta che non voleva saperne di stare al suo posto. Alla fine decisi di utilizzare un capellino con la visiera per nascondere un po' la mia acconciatura incasinata. Applicai un filo di mascara perché non ero capace di usare altro e giusto un po' di correttore sotto gli occhi per nascondere la stanchezza.

Appena misi piede sul pianerottolo però, mi ritrovai davanti il viso angelico di Enrico che usciva dalla porta di casa, esattamente di fronte alla mia.

"Ah" esclamai, presa alla sprovvista.

"Ciao vicina" mi anticipò il ragazzo, mostrandomi un sorriso gentile. Indossava un paio di pantaloni beige che gli calzavano a pennello, scarpe da ginnastica bianche e maglia dello stesso colore a maniche corte. I capelli ricci gli ricadevano sulla fronte e i suoi occhi fissi su di me mi mettevano terribilmente a disagio.

Come poteva un ragazzo apparire tanto semplice eppure tanto perfetto?

"Ehm chiamami pure Ol..." cominciai a balbettare, sospettando che non sapesse il mio nome.

"Olivia" mi anticipò lui con le labbra sempre rivolte all'insù. Notando la mia espressione sorpresa, il suo sguardo si fece divertito e, dopo aver sollevato la mano per indicare qualcosa alle mie spalle, concluse: "È scritto sul tuo citofono"

"Ah" sussurrai provando a mascherare il mio imbarazzo e distogliendo gli occhi da lui.

Il citofono Liv, accidenti!

"Io sono E..." si presentò il mio vicino, ma la mia testa era già andata in cortocircuito da un po', perciò parlai prima ancora di pensare e dalla mia bocca uscì: "Enrico"

Il ragazzo rimase un attimo interdetto, ma non sembrava infastidito, semplicemente confuso. Con orrore mi resi conto che era stata Benedetta a dirmi il suo nome e che sul suo citofono c'era scritto quello dei suoi genitori, non il suo!

Non avrei saputo dire se Enrico si fosse reso conto del mio disagio o se semplicemente avesse voluto stemperare la tensione che si era creata, ma decise di sorvolare e cambiare argomento, così mi domandò: "Stai uscendo?"

"Pensavo di andare a fare colazione" riuscii a dire con un certo contegno, nonostante la corsa che stava compiendo il mio cuore.

"Anch'io" ribatté Enrico, avvicinandosi di qualche passo verso di me e accentuando la differenza tra le nostre altezze "Andiamo insieme? La caffetteria qua sotto è molto buona"

Non mi aspettavo un invito del genere, soprattutto non dopo la mia figura, ma la mia lingua aveva deciso di non muoversi più, perciò mi ritrovai semplicemente ad annuire e in poco tempo ci ritrovammo seduti ad uno dei tavoli, qualche metro più in là rispetto al nostro edificio.

Dopo aver ordinato due cappucci, Enrico riprese in mano la conversazione, facendomi una delle poche domande alle quali volevo evitare di rispondere: "Allora, come mai ti sei trasferita?"

Annaspai in cerca di una scusa credibile che potesse oscurare la verità ma, nelle situazioni di tensione, il mio cervello non funzionava mai bene. In qualsiasi situazione, in realtà, non funzionava bene, ma in queste dava il peggio di sé.

"Per un problema di..." mi guardai intorno, alla ricerca di ispirazione e alla fine mi ritrovai a dire: "Per un problema di pidocchi"

Ma come mi era uscita questa? Ma non potevo stare zitta?

Lui mi guardò perplesso, ma sulle sue labbra continuava a persistere quel sorriso gentile, che in qualche modo mi creava ancora più imbarazzo, perciò decisi di spostare l'attenzione su di lui continuando: "È da molto che studi musica?"

Enrico ringraziò la cameriera che ci aveva portato il nostro ordine e poi rispose: "Da quando sono bambino. All'inizio suonavo il pianoforte, ma non appena ho stretto tra le mani il violino, è stato amore a prima vista"

Mentre parlava il suo viso si era illuminato e la sua voce si era fatta più entusiasta, si capiva che era un argomento che lo appassionava e mi ritrovai ad osservarlo sognante, mentre lui mi raccontava della sua prima, disastrosa, lezione di violino.

Amore a prima vista... Oh Enrico, quanto ti capivo!

"Mi devi fare un autografo" esclamai all'improvviso, contagiata dal suo entusiasmo "così quando diventerai famoso, potrò appenderlo come un quadro"

Enrico si lascò andare in una leggera risata, ma era velata da una certa tristezza e senza neanche accorgermene, lo guardai con apprensione.

Lui all'inizio sembrò titubante ad aprire bocca, mi fissò negli occhi per qualche secondo, ma poi qualcosa sul mio viso gli diede il coraggio per replicare: "Non credo succederà mai. Finito il liceo smetterò di suonare"

Avrei voluto chiedere di più, ma leggevo una certa tristezza nella sua espressione e non volevo essere invadente. Però, con mia grande sorpresa, Enrico riprese a dire: "Mio padre non crede che la musica possa essere il mio futuro. Preferisce vedermi impegnato in altri campi"

Le sue labbra si tesero in un sorriso forzato, poi i suoi occhi si abbassarono, andandosi a puntare sul tavolino davanti a noi e continuò: "Forse ha ragione"

Provai compassione per lui, ma anche rabbia verso suo padre e mi stupii di questo sentimento, perché in fondo non conoscevo Enrico per niente, ma la sua musica era penetrata nella mia anima e, se una persona riesce ad esprimere tanto con così poco, allora è sicuramente sulla strada giusta.

"Per quel che vale" pronunciai queste parole con tono risoluto, per dimostrare ed Enrico che credevo in quello che stavo dicendo, "non ho mai sentito nessuno suonare come suoni te. Credo che la tua musica sia poesia"

Enrico spostò la sua attenzione su di me e notai che il suo viso esprimeva sorpresa, ma anche felicità, perciò gli sorrisi per rincuorarlo maggiormente. Lui ricambiò quel gesto e in un soffio mi rispose: "Grazie, Liv"

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