La ragazza con due marchi

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Era ormai mezzogiorno, lo si poteva facilmente capire anche dall'odore di cibo che veniva dalla cucina. Da quando Dioniso aveva scoperto il piacere del mangiare e bere aveva preso pieno possesso della cucina, era diventata la sua stanza personale e non faceva che passarci le ore creando, provando e inventando. Anche se non avevano realmente bisogno di mangiare in molti avevano imparato a farlo, sfruttando le ore dei pasti come una semplice scusa per ritrovarsi, passare del tempo piacevole insieme con la scusa del cibo. Parlare gustando un buon piatto e bevendo alcol era più piacevole che farlo senza intrattenersi. Per il semplice fatto che per Priscilla ormai era invece una necessità era diventata perciò la cavia preferita di Dioniso quando voleva creare qualcosa di nuovo. E lei mai si era tirata indietro, anche se non raramente aveva rischiato qualche intossicazione. C'erano state volte in cui era stata assolutamente palese la tossicità del cibo preparato, l'odore non aveva promesso niente di buono anche se Dioniso aveva creduto di aver dato vita a una nuova opera d'arte. Eppure nonostante tutto lei lo provava lo stesso, con un sorriso abbastanza spaventato, ma non si tirava mai indietro perché sapeva che così avrebbe fatto felice il piccolo chef della loro comunità. Ascoltava volentieri persino le lamentele di Nemesi, che cercava di dare una regola a ogni cosa, regole a cui raramente i suoi fratelli sottostavano. "Eunomia dorme sempre", "I gemelli non andrebbero lasciati andare in giro da soli", "Eris è troppo scorbutica", "Hermes perde troppo tempo a bighellonare in giro" e nonostante alla fine perdesse sempre tutte quelle battaglie, Priscilla l'ascoltava e cercava comunque di trovare un accordo che potesse andar bene a tutti. Accettava di seguire i gemelli quando volevano farle vedere qualcosa, leggeva loro una storia tutte le sere prima di andare a letto, si occupava di qualsiasi faccenda burocratica con dedizione e attenzione, aiutava Dike nelle faccende, si allenava con Ares, Ebe e Eris tutte le volte che questi chiedevano di integrarla. Ogni tanto passava persino a parlare con Efesto, sempre rinchiuso nella sua officina a creare qualcosa di nuovo, il più silenzioso e riservato della gilda. Sosteneva sempre di essere eccessivamente impegnato, e in parte era vero visto che aveva sempre qualcosa da costruire o aggiustare, ma probabilmente era più dovuto al suo carattere introverso e silenzioso. Avevano accettato tutti di lasciarlo in pace, ma ogni tanto Priscilla si preoccupava lo stesso di andare a scambiare due parole con lui e si faceva spiegare a cosa stesse lavorando. Forse anche complice il suo animo malinconico, ma dormiva sempre molto poco e dava la colpa ai mille impegni che aveva. Si era unita a loro perché aveva bisogno di essere protetta, ma aveva finito con l'essere lei quella che li aveva accolti tutti tra le sue braccia.
"Somiglia quasi a una mamma"
"Che cos'è una mamma?"
I gemelli si erano scambiati quella piccola riflessione non troppo tempo addietro. La sera prima lei aveva letto un libro dove protagonista c'era una mamma leone, una semplice fiaba per bambini come un'altra, ma da quel libro loro avevano compreso il significato della parola mamma e non avevano esitato ad attribuirglielo.
Era stato facile per loro che erano stati creati dal nulla, che non avevano mai neppure idea di cosa fosse in realtà una mamma. Non ne avevano mai avuta una, perciò se l'erano costruita come il mondo aveva costruito loro.
"Che io sia una bambola, un gatto o un essere umano, fintanto che questo simbolo resterà su questa mano io sarò sempre e solo Pricchan, una maga di Fairy Tail."
La frase con cui aveva decretato la loro morte, più di un anno addietro, Ares non l'aveva mai dimenticata, il giorno che Olympos, guidata da Zeus, si era ritrovato a colpire duramente la gilda e la persona che avevano poi insegnato loro il vero significato di vivere. Era successo all'improvviso, esattamente un anno prima, nell'istante in cui Priscilla aveva chiesto che le venisse messo il marchio di Olympos sulla pelle, a decretare la sua effettiva appartenenza a quella gilda, che gli era tornata quella stessa frase in mente e nonostante lo sforzo non era più riuscito a dimenticarla.
"Fintanto che questo simbolo resterà su questa mano io sarò sempre e solo Pricchan, una maga di Fairy Tail."
Quel simbolo non l'aveva mai cancellato. Nascosto sotto al guanto destro, negava la sua esistenza persino a se stessa, ma era sempre rimasto lì nonostante tutto.
"Ragazzi, anche se non potrete vedermi... io sarò sempre con voi" era ciò che aveva detto con le lacrime agli occhi, un sorriso raggiante, prima di effettuare la dissolvenza. La magia che l'aveva quasi fatta sparire per sempre, la magia che li aveva liberati e salvati, ma a caro prezzo della sua stessa esistenza. Solo un colpo di fortuna e un disperato attaccamento a Laxus l'aveva riportata indietro, ma ora, un anno dopo, con tutto ciò che era accaduto... quelle parole erano così pregnanti.
Erano passati tre giorni dalla guerra con Avatar, avevano lasciato Malva poco dopo la fine dello scontro, dopo aver avuto modo di salutarsi e parlare un po' con gli ex membri di Fairy Tail con cui si erano ritrovati. Poi si erano salutati ed erano tornati a Olympos, e Priscilla con loro. Sapeva che Fairy Tail stava venendo riformata, l'aveva scoperta dal Weekly Sorcerer qualche giorno addietro e anche a Malva Lucy le aveva parlato di quel loro nuovo obiettivo. Le avevano chiesto di rivedersi a Magnolia, lei non aveva risposto e aveva in qualche modo cambiato argomento e poco dopo se n'erano andati. Priscilla non aveva più parlato di Fairy Tail, aveva continuato a comportarsi come sempre occupandosi dei gemelli, aiutando Dike, mangiando gli intrugli di Dioniso e allenandosi con Eris e Ebe. Ma il marchio era ancora sotto quel guanto e quelle parole...
"Io sarò sempre con voi".
Seduto di fronte al camino, curvo sulle proprie spalle, Ares mosse timidamente le dita della mano destra e imitò lo stesso gesto che aveva visto fare loro più volte. Chiuse la mano a pugno e alzò solo indice e pollice verso l'esterno. Restò ad osservarlo, pensieroso. Priscilla gli aveva spiegato il suo significato, era un gesto senza nessun senso che aveva inventato Laxus quando era piccolo il primo giorno che aveva partecipato al Festival di Magnolia senza suo nonno. Era preoccupato che non avesse potuto vederlo e per questo si era inventato quel gesto per comunicare con lui, comunicargli che era al suo fianco anche se non lo vedeva. Era qualcosa di così intenso che era diventato presto il gesto simbolo di Fairy Tail, il loro silenzioso abbraccio verso tutti quelli che non potevano avere a fianco in quel momento. Perché ovunque fossero, per quanto fossero distanti, loro erano sempre insieme. I loro cuori mai si sarebbero dimenticati, mai si sarebbero allontanati, uniti da quel marchio che avrebbero portato con loro per sempre. Anche se nascosto da un guanto.
«Ares» la voce di Athena lo chiamò alle sue spalle, entrando nella sala comune. Era solo, gobbo, seduto scomposto di fronte al camino, con i gomiti poggiati alle ginocchia. Nascosto di fronte a sé, Ares fissava ancora il gesto simbolo di Fairy Tail, con la mano chiusa a pugno e le due dita che si sollevavano.
Sorrise, ma di un sorriso amaro.
«Conosco una storia in cui una bambola è infine diventata umana» mormorò, pescando la frase tra i suoi ricordi. Anche questa gliel'aveva detta Priscilla, il giorno dello scontro tra Olympos e Fairy Tail, la ricordava bene. Era ironico come in quel momento fosse lui stesso a pronunciarla e fosse più reale di quanto non lo fosse stata al tempo. Athena non chiese spiegazioni, anche se non riuscì ad arrivare al suo stesso ricordo non era difficile comprendere di chi stesse parlando. Ares si sollevò con la schiena, raddrizzandosi, e con un profondo sospiro si sgranchì il collo.
«Sono già tutti fuori» disse dopo qualche secondo di silenzio, in cui gli permise di prepararsi mentalmente.
«Come stanno i gemelli?» chiese lui, con una punta di preoccupazione nella voce.
«Hanno ancora bisogno di tempo, Dike sta pensando a loro» rispose Athena, prima di aggiungere. «Lei sta tornando».
«Va bene» sospirò Ares e infine si alzò dalla sedia. Si voltò e si diresse verso l'ingresso, davanti al quale stanziava ancora Athena con le mani infilate nelle maniche del kimono. La raggiunse ma non la superò, bloccato dalle parole della sorella: «Sei sicuro, allora?»
«Ne abbiamo discusso e abbiamo votato, siamo tutti d'accordo» confermò Ares, ma questo non rasserenò Athena neanche un po'.
«L'hai cercata disperatamente nei tuoi primi anni di vita, sentendo il bisogno di avere un'appartenenza, qualcuno che ti spiegasse cosa significasse la vita. Zeus non ha mai avuto questa accortezza, ti ha solo dato un ruolo, ma nessun significato. Sapere che al mondo esisteva qualcuno che ci era passato prima di te e che aveva dato l'input per spingere nostro padre a crearci ti dava motivo di andare avanti. L'hai cercata e inseguita a lungo, hai lottato per averla accanto e in questo anno più di tutti noi ti sei occupato e preoccupato di lei» si voltò e fissò per la prima volta gli occhi di suo fratello. «Io ed Eris siamo quelle che ti comprendono meglio, non puoi fingere che non ti importi neanche un po'».
«Sei preoccupata per me?» ridacchiò lui, cercando come sempre di alleggerire la cosa con il suo fare sornione e provocatorio. Ma Athena era forse l'unica che poteva tenergli testa, quando voleva, e con severità disse: «Sì, sono preoccupata per te. Sei l'unico che non ha detto una parola su ciò che prova a riguardo, hai solo parlato di cosa è giusto e cosa dobbiamo fare e da allora non fai che isolarti. Fingi solo di essere forte, ma dovresti per una volta parlare apertamente. Ti sta davvero bene così?» chiese più decisa e severa.
Con un sospiro Ares ammorbidì le spalle e quello bastò a far cadere, anche se in parte, la corazza che continuava a portare su di sé. Sua sorella l'aveva colpito troppo duramente per non concederle la sua piccola vittoria.
«L'ho proposto io, direi che mi sta bene così» disse, prima di concedere ad Athena l'onore di uno sguardo. Un ulteriore modo di abbassare la guardia, permetterle di guardargli gli occhi e leggergli così l'anima. «Starò bene, stai tranquilla».
Athena continuò a scrutarlo, leggergli dentro lo sguardo, cercando di cogliere se quella fosse la verità. Non si rilassò molto, ma almeno parve convincerla.
«Abbiamo lottato un anno contro le gilde oscure in nome di Fairy Tail» disse Ares, distendendo i nervi. «Per proteggere il segreto di Lumen Histoire, anche se non abbiamo idea di cosa sia. Nonostante sia stata sciolta, abbiamo lottato tutto questo tempo solo per quella gilda. Non mi sentirei a posto con me stesso se proprio ora li tradissimo».
«Tradimento è una parola grossa» commentò Athena e Ares ridacchiò divertito: «Sì, lo è, ma la sensazione è la stessa. Lì c'è qualcuno che la sta aspettando».
Lucy, che le aveva spiegato del ritorno di Fairy Tail e l'aveva pregata di raggiungerli, la stava aspettando. Wendy, che aveva pianto tutte le lacrime che aveva quando l'aveva vista, anche lei la stava aspettando. Levi, Gajeel, anche Natsu, che le aveva chiesto di sfidarsi non appena si sarebbero incontrati di nuovo, anche lui la stava aspettando. E soprattutto Laxus... per quanto lo detestasse, lo sapeva bene che lui più di tutti l'avrebbe aspettata. E lei aveva bisogno di avere quelle persone intorno per poter ridere in quel modo sincero e caldo, come aveva fatto tre giorni addietro a Malva. Sospirò ancora, ma più rumorosamente e più divertito. Sollevò gli occhi al soffitto e si portò una mano alla testa, ridendo un ironico: «Quando è successo che sono diventato così tenerone?»
«Lo sei sempre stato» lo ammonì Athena e voltandosi uscì, anticipandolo.
«Questo non è affatto vero!» rispose lui, contrariato e offeso. «Io sono un guerriero!» gonfiò il petto, ma Athena lo ignorò apertamente e uscì nel cortile della loro nuova sede. Di nuovo solo lo sguardo di Ares ebbe modo di tornare a rabbuiarsi, protetto dalla solitudine. Lui era quello che sorreggeva, non era un bene che gli altri vedessero il suo vacillamento, ma in qualche modo le parole di Athena l'avevano confortato. Lui era quello che sorreggeva, ma non era solo in tutto quello. Poteva farcela.
Aprì la porta e uscì, illuminato dalla luce del sole, mostrandosi di fronte a una sorpresa e confusa Priscilla. L'intera gilda, tranne Dike e i gemelli, si era fatta trovare lì fuori nell'istante in cui era tornata dalla sua perlustrazione insieme a Eris. Li aveva guardati, curiosa, chiedendosi cosa stesse accadendo e la curiosità era aumentata quando aveva visto Eris abbandonare il suo fianco e avvicinarsi sicura ai suoi fratelli. Lei sapeva.
«Ares...» mormorò Priscilla, guardandolo nella sua imponente figura che si frapponeva tra lei e l'ingresso della gilda. «È successo qualcosa?» chiese preoccupata, ma a risponderle fu solo lo sguardo severo e corrucciato di Ares. Tutta la sua debolezza, tutti i suoi timori, erano sfumati, scomparsi, lasciando spazio solo a una forte determinazione che quasi sfiorava il rancore.
L'uomo incrociò le braccia al petto e pronunciò infine un rauco: «Sei esiliata».
«Cosa?» impallidì lei, sempre più confusa e ora anche spaventata.
«C'è stata una votazione che ha raggiunto l'unanimità. Riprendo io il posto di Master e ti ordino di allontanarti da qui il prima possibile» decretò severo.
«Mi prendete in giro?» chiese lei, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito anche se ancora avvolto dalla nebbia della confusione. Era sicuramente uno scherzo, non poteva essere altrimenti. «Avanti, non fate gli stupidi. Fatemi entrare» disse e provò ad avanzare per avvicinarsi alla porta ma dal terreno il fango emerse e le avvolse le caviglie imprigionandole. Ilizia, con un braccio steso, le impedì di procedere oltre.
«Questa gilda porta il nome di Olympos, la casa degli Dei, la casa degli immortali. Un tempo avresti portato questo nome con orgoglio, ma ad oggi nonostante le cure sei più un umana che immortale. Non sei parte della nostra famiglia» disse Athena, spiegando così le ragioni dietro quella decisione. «La tua fragilità, la tua debolezza, non rendono onore alla nostra gilda. Master non è un'onorificenza che può appartenerti».
«Mi avete eletta voi...» sibilò Priscilla, sentendo il cuore andare in pezzi. «Puoi riprendertelo! Non mi interessa essere Master, davvero. Puoi riprenderti il titolo, Ares».
«L'ho fatto e con esso ordino che tu venga allontanata» disse Ares.
«Ma perché?» strillò lei, ormai sull'orlo del pianto.
«Non appartieni a questa famiglia, Priscilla» disse Ares, alzando imponente la voce roca, fece persino tremare gli alberi. «Se non accetterai la tua sentenza mi costringerai a usare la forza. Questa è una scelta presa dall'intera gilda, tramite votazione, se sei contro di noi io in qualità di Master mi batterò per difendere la mia gilda e le sue ragioni».
L'immobilità di Priscilla le impedì di reagire per qualche secondo, mentre nella sua mente si accavallavano pensieri, paure, follie. Cosa stava accadendo? Che fossero caduti vittima di qualche incantesimo? Come potevano essere giunti a una simile decisione dopo solo un pomeriggio in cui era stata via? Non c'era nessuna ragione, nessuna logica dietro tutto quello.
Sorrise, sghignazzò mentre la follia prendeva possesso dei suoi occhi.
«Ok, ci ero quasi cascata» ridacchiò, ammorbidendosi. «Non so perché mi stiate facendo questo scherzo ma...» non concluse la frase. Ares era scattato in avanti con una tale velocità che non aveva neanche avuto tempo di notarlo e le aveva assestato un terribile colpo in pieno stomaco. Piegata in avanti, il pugno l'aveva colpita con una tale intensità che per infiniti secondi le mancò il fiato. Cadde in ginocchio, al fianco di Ares, e tossì sputando a terra. Neanche vide Ebe che d'istinto aveva fatto un passo in avanti, verso di lei, ma che Eris con una mano ferrea e disperata l'aveva afferrata per la maglia e trattenuta.
In ginocchio con le mani poggiate al ventre, laddove ancora pulsava di dolore, non ebbe neanche la forza di alzare gli occhi. Ares l'aveva colpita... Ares l'aveva colpita seriamente. E le aveva fatto davvero un gran male.
«Ultimo avvertimento. Vattene, ora» disse ancora severo e composto.
Tremò, non comprendendolo e cominciando ad arrabbiarsi per questo. Dove aveva sbagliato? Qual era stato il suo errore?
«Perché?» ringhiò.
«Questa non è la tua famiglia, te l'ho già spiegato» disse Ares e piroettando appena destinò a Priscilla un calcio che l'avrebbe colpita in piena nuca se lei questa volta non avesse avuto la prontezza di pararlo. Il colpo fu comunque di una potenza tale che, benché parato, la scaraventò via. Priscilla fu costretta a far appello alle sue forze e alla sua magia per bloccare il suo volo e rimettersi con i piedi a terra. Vide Ares correre nella sua direzione, pronto a colpire di nuovo, ma non si fece trovare impreparata. L'avrebbe parato nuovamente, non avrebbe semplicemente subito.
«Di che diamine stai parlando? Certo che siete la mia famiglia! Ormai appartengo a voi» urlò, indietreggiando per schivare un altro pugno.
«Questa non è la verità!» ruggì Ares, tentando una serie di colpi che costrinse Priscilla a porre estrema attenzione per schivarli tutti a quella velocità. «Mostraci la tua mano destra, vuoi giurarmi che lì sotto non hai il marchio del tradimento? Non sei mai appartenuta a noi e mai lo sarai!» disse e furono quelle parole a dare finalmente un primo senso a tutto quello che stava succedendo. Si sentivano traditi perché lei non aveva mai cancellato quel simbolo... e forse la rinascita di Fairy Tail li minacciava. Temevano nel vederla sparire, voltar loro le spalle. O almeno era questo che lei pensò.
«Io non voglio andarmene» mormorò, parando e schivando altri colpi. Ma la distrazione fu fatale e Ares la colpì nuovamente scaraventandola a terra con un lamento.
«Devi andartene» digrignò i denti, vedendola stesa a terra. Tremante Priscilla puntò un gomito al suolo e si spinse per riuscire a tirarsi su almeno con la schiena. Non era tanto il dolore fisico dei colpi di Ares a farle tutto quel male, ma erano le sue parole. Le sue convinzioni. La stavano accusando di tradimento, la stavano allontanando, ma lei li amava. Li amava tutti davvero.
«Io non voglio andarmene!» urlò così forte che per decine di metri gli alberi l'ascoltarono e probabilmente mai avrebbero dimenticato la disperazione di quella voce. Alzò gli occhi umidi di lacrime ma non le versò, colta da una sorpresa che come un fulmine le aprì il cielo sgomberandolo di nuvole. Oltre la figura rigida e solida come una roccia di Ares i membri di Olympos non riuscivano a mantenere la stessa saldezza. Hermes e Dioniso più di tutti, ancora giovani e incapaci di mostrarsi troppo forti, piangevano a dirotto nonostante contraessero i muscoli per impedirsi di farlo. Tiravano su col naso, cercando di salvare il viso dal muco che colava, inutilmente. Al loro fianco anche gli altri fratelli tremavano e qualche lacrima sfuggiva al loro controllo, eppure i loro volti erano sorridenti e felici. Una piccola gioia nel vedere il suo attaccamento a loro, unito al dolore di ciò che erano costretti a fare. Non avevano realmente intenzione di cacciarla, ma l'avrebbero fatto comunque.
«Lo sappiamo» sussurrò Ares, ma ciò nonostante non rinunciò alla sua portanza. Lui li avrebbe sostenuti, lui era colui che li sorreggeva, lui era la roccia a cui si aggrappavano e non avrebbe vacillato nemmeno di fronte a quel terribile momento. Si era fatto carico del più doloroso delle missioni e l'avrebbe portato a termine fino in fondo perché quello era il suo ruolo, quella era la sua magia. La forza di Ares superava persino barriere come quelle. «Ma devi andartene» ripeté, ancora deciso ma non più violento.
«No...» sibilò lei, col viso ora ricoperto di lacrime. «Non so dove andare...»
«Certo che lo sai!» rispose lui risoluto e ancora il cielo dentro sé si spalancò. Ora lo capiva, ora li capiva. Non la stavano cacciando... la stavano ancora una volta proteggendo. Lei doveva tornare a Fairy Tail, doveva farlo! Per gli altri, ma soprattutto per se stessa. Poteva anche amare qualcun altro, poteva anche decidere di allontanarsi per un po', ma la sua casa non avrebbe portato mai altra bandiera se non quella della coda delle fate. Fairy Tail si era riunita, lei non sarebbe tornata volontariamente e allora loro l'avrebbero costretta a farlo.
Ares allungò la mano nella sua direzione ma non l'avrebbe usata per aiutarla. «Vuoi ridarmi indietro quei guanti?» chiese semplicemente. Il simbolo di Fairy Tail era tempo che tornasse a respirare. Tremando Priscilla spostò gli occhi annebbiati di lacrime alla sua mano destra, coperta dal guanto, sapeva perfettamente cosa vi avrebbe trovato al di sotto. Era davvero pronta a scoprirlo?
Si mosse lentamente, piantò un piede a terra e tremando come una foglia infine si alzò. In piedi di fronte ad Ares, con la sua stessa rigidità, infine strinse i pugni e si mise in posizione da combattimento.
«Priscilla...» mormorò Ares, sorpreso dalla sua reazione.
«Hai detto che se non accettavo le tue ragioni allora mi avresti combattuto, no?» ruggì lei, con la voce rotta dal dolore. «Non ti permetterò di prenderti il mio posto, se vuoi il titolo di Master allora devi sconfiggermi» una solennità e una promessa che non le appartenevano, ma che dimostravano il suo attaccamento viscerale verso quelle persone. Era persino disposta a combattere, disposta a combatterli, pur di averli ancora per sé. Non ci credeva, non ci credeva nemmeno un po' che loro non fossero la sua famiglia. L'avevano accolta e sostenuta nel momento del maggior bisogno, le avevano dato tutto ciò di cui aveva avuto bisogno per riprendersi, l'avevano protetta e lei li aveva amati così tanto che mai più avrebbe potuto concepire una vita lontana da quelle persone che come lei avevano imparato sulla propria pelle cosa significava la vita. Ma la sua determinazione faceva letteralmente a pugni con quella di Ares, che non avrebbe mai accettato di averla al loro fianco sapendola così distante dalle persone che realmente riuscivano a renderla felice. Priscilla era nata con loro, era vissuta con loro, quelle persone avevano tra le dita il significato della sua esistenza e l'avevano curato con candore e passione troppo a lungo per essere dimenticate. Priscilla poteva anche essersi legata a loro, ma la sua casa non era in quel luogo. Ed ora la stavano aspettando.
Tirò un pugno, poi un altro, saltò per schivare un attacco e da un altro venne travolto. Lottò contro il vento impetuoso di Priscilla, per un istante ne venne sopraffatto, ma trovò la forza di contrastarlo e rimandarlo indietro. Evocando tutta la sua magia, fino all'ultima goccia, riusciva persino a generare onde d'urto in grado di sfondare i suoi tornadi che ruggenti non davano tregua a quel cortile. Priscilla piangeva disperata, piangeva e urlava, colpiva con tutta la rabbia e il desiderio che aveva e poteva sentirglielo addosso. Aveva l'odore di chi avrebbe dato anche la sua stessa anima, stava dando fondo a tutte le sue energie pronta a rimanere stremata, ma non smetteva di colpire sempre più forte e sempre più disperata.
E per quanto fosse egoista, Ares non riuscì a non sentirsi felice di questo. Priscilla li amava davvero, era disposta a combattere persino contro la sua stessa felicità, contro qualsiasi cosa, pur di averli a fianco. Come aveva sospettato fin dall'inizio, non li avrebbe mai lasciati volontariamente e per questo a lui non restava che combattere, da solo contro tutti, persino contro se stesso, pur di aiutarla a fare quell'ultimo passo: tornare a casa sua, dalla sua vera famiglia.
Colpì, venne colpito, combatterono duramente come se ne valesse della loro stessa vita, ma alla fine, ricoperta di ferite, con un ultimo pugno Ares riuscì a sfondare ancora una volta la sua guardia e Priscilla cadde.
Ansimante per la fatica, guardò il corpo della ragazza immobile al suolo, ormai distrutto non sembrava avere nemmeno più la forza per parlare. Ma era sveglia, vedeva i suoi occhi aperti puntati al cielo, seguivano il tragitto di una nuvola bianca e soffice. Si pulì del sangue da un labbro spaccato e tornò a raddrizzarsi, abbandonando la posa combattiva, mentre Priscilla ancora non si muoveva né parlava. Sconfitta nel corpo, ma ora forse più nell'animo, aveva capito. L'ultimo pugno di Ares l'aveva colpita e atterrata perché lei l'aveva voluto, segretamente, inconsapevolmente, gli aveva permesso di distruggerla. Dentro la sua anima non aveva smesso di ardere la fiamma di Fairy Tail e la sua incapacità nel cancellare il simbolo che portava sulla mano destra ne era la dimostrazione. Lei aveva desiderato essere sconfitta.
«Ares...» mormorò con un filo di voce, ma ora finalmente in pace. Non c'era disperazione, non c'era rabbia né dolore. Rassegnazione, forse, ma soprattutto serenità. Aveva finalmente compreso che lei doveva tornare a casa perché anche se l'aveva da sempre negato anche a se stessa era tutto ciò che in realtà aveva sempre desiderato. «Posso tenere su di me il marchio di Olympos? Per favore...».
Sarebbe anche tornata a casa, sarebbe stata anche la Pricchan di Fairy Tail, ma questo non le avrebbe mai impedito di restare comunque legata a loro. Li avrebbe portati su di sé, li avrebbe portati con sé, ovunque sarebbe andata. E nonostante la consapevolezza che non avrebbero più vissuto sotto lo stesso tetto, incredibilmente, bastò solo questo per dar loro la gioia di accettare quella condizione. Lei sarebbe stata per sempre al loro fianco, a qualsiasi costo, a qualsiasi distanza l'avessero obbligata... non li avrebbe mai dimenticati.
«Sì» annuì, sorridendo timidamente.
«Grazie» e sul suo volto comparve un altro di quegli incredibili sorrisi in grado di illuminarla. Uno di quei sorrisi che mai avrebbero pensato che sarebbe stata in grado di fare finchè avesse vissuto lontano dalla sua famiglia. Invece quello, in quel momento, era tutto per loro. «Sono stata davvero felice di essere stata al vostro fianco per questo anno. Grazie davvero».

Sotto al sole al tramonto, Magnolia si stava dipingendo di un rosso cristallino che poche altre città erano in grado di riflettere con un tale splendore. Priscilla aveva viaggiato a lungo, per lavoro, per paura, aveva passato un anno intero a vagare di città in città avendo come unico punto di riferimento una gilda che aveva salvato dal controllo di un padre dispotico e privo di umanità. Lontana dal mondo, nascosta da tutti, aveva vissuto quell'anno in uno stato di morte apparente senza neanche avere idea di cosa stesse accadendo a casa. Non aveva saputo nemmeno che Makarov era sparito e che Fairy Tail era stata sciolta. Ma nonostante avesse visto decine di città diverse, impegnata com'era stata nell'inseguire le gilde oscure e proteggere il segreto di Lumen Histoire, non aveva mai visto nessuna città in grado di brillare come Magnolia alla luce del tramonto. Le case perlacee si tingevano di colori magici, il rosso del fuoco, il rosso dei draghi che avevano fatto di quella città un punto di riferimento. Sentiva caldo, un caldo accogliente come la leggera stretta di un abbraccio. Ne sorrideva, timida, ma si nascondeva abbassando lo sguardo, come se sentisse di non meritarlo. Era stata lei a voltar loro le spalle, era stata lei a scappare e negare qualsiasi contatto, era stata lei a negare persino la loro esistenza per un anno intero. Con quale coraggio sarebbe tornata da loro? Con quale coraggio avrebbe rivendicato il suo posto all'interno della gilda, all'interno di quella città, dopo il suo tradimento? Non era stata lì nemmeno per impedire a suo nonno di fare ciò che aveva fatto, se solo l'avesse fatto... se solo fosse restata... le cose sarebbero state diverse?
Si fermò, incapace di proseguire. Le dita si strinsero maggiormente sui manici della sua sacca da viaggio, appesa a una spalla, e incassando la testa nelle spalle spostò lo sguardo ai propri piedi. Oltre quell'ultimo incrocio avrebbe potuto vederlo, lo stendardo di Fairy Tail sventolare con il suo solito orgoglio e la sua bellezza insuperabile. Le avrebbe dato il benvenuto?
"Era sotto le macerie" ricordò improvvisamente e si strinse maggiormente nelle spalle. L'ultima volta che aveva visto quella bandiera era bloccata sotto a un sasso, incastrata e lacerata, e lei non era stata in grado di far svolazzare nemmeno un suo angolo. La notte che era scappata, il suo ultimo saluto l'aveva dato voltando le spalle al dolore di quella bandiera che era stata appena mandata in pezzi in una guerra di cui aveva solo sentito le storie. Non era stata nemmeno in grado di proteggerla, schiacciata dalla sua debolezza era rimasta in un letto per una settimana intera mentre la sua famiglia e la sua casa avevano rischiato la peggiore delle situazioni. Era stata distrutta, la sua casa e la sua famiglia erano state distrutte proprio sotto al suo naso e lei non aveva fatto altro che rivolgere verso di loro il proprio egoismo. Troppo preoccupata per se stessa, troppo debole per riuscire a intervenire, non aveva fatto che scappare da quella vergogna per tutto quel tempo.
La bandiera... era ancora sotto le macerie? O avrebbe sventolato per lei?
"Io ti aspetterò lì, Pricchan".
Era davvero pronta a rivedere Laxus? Se lui fosse stato veramente lì, se lei avesse di nuovo cominciato a provare ciò che aveva provato un tempo, a cosa sarebbe servito tutto quello?
«Non sarei dovuta tornare» sussurrò, cominciando a tremare.
E sentì dentro di sé lo stesso istinto che aveva sentito la notte che era scappata. La paura, il dolore, la vergogna. Avrebbe voltato i propri passi, sarebbe corsa via, scappando nuovamente, ma il vento, il suo stesso vento, le impedì di farlo. Una folata le scompigliò i capelli, lontana dal suo controllo, la spinse in avanti come a volerla incoraggiare. Spalancò gli occhi, riuscendo improvvisamente a sentirlo.
Oltre l'incrocio poté sentire decine di voci accalcarsi, una sopra l'altra, in un brusio così familiare da solleticarle la pancia. La voce di Natsu che urlava il nome di Gray, Lucy che squillante parlava con Levy, Gajeel che litigava qualcuno, Elfman che urlava di dover essere uomo, Lisanna che rideva di lui, Erza che cercava di ristabilire l'equilibrio, Cana che rideva sganasciata, la voce della piccola Asuka, di Bisca, Alzack, Jet e Droy... Si accalcavano, urlavano l'una sopra l'altra, ognuna con la propria ragione d'esistere. Erano così intense che poté sentire persino il malinconico odore del legno dei tavoli della gilda, il cincinnino dei bicchieri, la musica del palco, le risate, il cigolio della porta...
Come rapita da un sogno, spinta dal vento, si ritrovò a percorrere i pochi passi che la separavano dall'angolo della casa che le occludeva la vista. Voleva vederli, voleva vederli tutti, guardare i loro volti, immergersi nei loro sorrisi, affogare nei loro sguardi.
La bandiera di Fairy Tail era stata infilata tra le rocce, in cima al cumulo di macerie più alto. Su una distesa desolata di distruzione e morte, sventolava tranquilla, rovinata ma ancora splendente nei suoi colori e nel suo simbolo. Schioccò improvvisamente, smossa da dei colpi di vento più intensi di quelli finora presenti, e fu quell'improvviso cambiamento nell'intensità e nella direzione del vento ad attirare l'attenzione di Wendy per prima. Guardò curiosa la bandiera, riuscendo a sentire lei per prima la diversità dell'aria che improvvisamente li aveva avvolti. Era fresca come aria di montagna, era rigenerante, era pura e candida, riempiva i polmoni e portava con sé un piacevole odore di casa e di amore. Si voltò, riconoscendo quell'odore, e si illuminò nel vedere la sagoma di Priscilla sbucare timida da oltre l'angolo di una strada. Una mano poggiata al muro, l'altra abbandonata a se stessa, aveva lasciato andare la sacca che portava appesa alla spalla e l'aveva fatta cadere a terra, vicino ai suoi piedi. Gli occhi umidi erano rivolti a loro, timorosi ma rapiti come se si trovasse di fronte al più bello dei balocchi. Imbambolata, li fissava come incantata, incapace forse persino di respirare per l'emozione che stava provando in quel momento. Quella stessa emozione che travolse Wendy non appena la vide.
Era tornata... Priscilla era tornata.
«Nee-san» sussurrò illuminandosi in un commosso sorriso. Con gli occhi ora pieni di lacrime, ma il volto felice, si limitò a guardarla mentre a bocca dischiusa lei ancora non riusciva a muovere nemmeno un muscolo. Charle sentì per prima la voce di Wendy chiamarla e si voltò a fissare lo stesso punto, oltre la piazza, non troppo lontano. Come lei anche Lily, poi Happy, Mirajane, Lucy, Erza... tutti, curiosi di capire cosa stesse attirando la loro attenzione, si voltarono a guardare una Priscilla che emozionata li fissava ma timorosa come un animale non aveva il coraggio nemmeno di avvicinarsi.
«Yo!» urlò Natsu, da sopra il suo cumulo di macerie. Alzò un braccio per salutarla, le sorrise radioso e lei sobbalzò nel sentirlo rivolto nella sua direzione. «Mancavi solo tu!»
«Ti stavamo aspettando» sorrise Erza, calda e amorevole come una madre. Una frase, un'espressione, che fece esplodere in Priscilla finalmente la mina che per un intero anno aveva seppellito dentro sé ritardandone il più possibile lo scoppio. Loro la stavano aspettando, i sorrisi dei suoi compagni di fronte alla frase di Erza dimostravano che erano d'accordo. Nessuno portava rancore, nessuno la vedeva come una traditrice, nessuno aveva mai provato rabbia verso di lei.
Loro la stavano semplicemente aspettando.
«Bentornata» sorrise Mirajane, candida e luminosa come solo lei sapeva essere. Quella era l'accoglienza che avrebbe sempre voluto avere, fino alla fine dei suoi giorni. Le lacrime cominciarono a sgorgare copiose sulle sue guance, irrefrenabili tanto da inumidirle il naso e farglielo colare. Tremò come una foglia e provò inutilmente a tirare su col naso, come una bambina in preda ai singhiozzi. Ma nonostante tutto il viso si distese in un sorriso, radioso nonostante il dolore deformasse la sua espressione, ma mai un suo sorriso era stato tanto sincero.
In preda ai singhiozzi disse l'unica cosa che in quel momento sembrava avesse un senso: «Sono a casa».

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